La “paura della chimica”, nelle sue svariate manifestazioni, è un fenomeno vecchio di decenni ma ancora poco studiato dal punto di vista sociale e culturale. La rivista Nature ha cercato di spiegarne le complesse dinamiche cognitive
Il 39% degli europei vorrebbe vivere in un mondo ‘senza sostanze chimiche’, e un ulteriore 39% si dichiara incerto sulla questione. Il 40% delle persone dice di ‘fare tutto il possibile per evitare di entrarci in contatto’. Il 30% si definisce apertamente ’spaventato dalle sostanze chimiche’, e un altro 41% condivide un certo grado di preoccupazione sull’argomento. Sono questi alcuni dei numeri relativi alla paura della chimica – o più tecnicamente chemofobia – emersi da un recente studio pubblicato su Nature Chemistry, basato su una ricerca che nel corso del 2019 ha coinvolto più di 5mila cittadini del Vecchio Continente, tra cui circa 700 italiani.
La chemofobia: una paura nata decenni fa
Sorvolando sulla pignoleria che di sostanze chimiche è composto ciascuno di noi e tutto il mondo, e che quindi le risposte timorose avrebbero ben poco senso se interpretate in senso letterale, è interessante capire da dove questo timore arrivi. Sia in termini storici sia di motivazioni. “La chemofobia è di per sé piuttosto vecchia e risale almeno gli anni Sessanta e Settanta. Anche se si trovano pubblicità già di inizio Novecento in cui – per esempio – si vantava che un cioccolato non contenesse sostanze chimiche”, spiega a StartupItalia Dario Bressanini, docente di chimica all’università dell’Insubria e divulgatore scientifico. “Nell’Ottocento è indubbio che la chimica fosse vista con favore, poiché era il motore dello sviluppo economico e permetteva di produrre farmaci e sconfiggere malattie. Poi però questa concezione positiva è pian piano cambiata, come ho raccontato un decennio fa nel libro Pane e bugie”.
Le novità dello studio
Se la chemofobia non giunge certo nuova all’interno della comunità scientifica, il vero valore della pubblicazione su Nature sta nell’aver approfondito le euristiche, i bias cognitivi e le ragioni istintive che entrano in gioco nel generare un pregiudizio irrazionale nei confronti della chimica. Per riassumerle in tre titoletti: l’idea che “naturale è meglio”, l’illusione del contagio e la questione della fiducia.
“Tutte queste euristiche tendono a emergere di più quando non si possiedono quelle conoscenze scientifiche di base. Le quali permettono di mettersi al riparo dai fraintendimenti. Come l’idea che il cloruro di sodio fatto in laboratorio sia diverso da quello del sale di origine marina”, commenta Bressanini. Oltre al fatto che spesso non si considera che esistono in natura sostanze estremamente nocive per la salute umana. “È sorprendente – aggiunge –, che un argomento come la chemofobia sia finora stato studiato pochissimo a livello sociologico e culturale. Non ci si era posti il problema di indagare i ragionamenti che effettivamente le persone fanno”.
Naturale Vs sintetico
Il termine naturale tende a generare reazioni esclusivamente positive, hanno scritto gli autori dello studio. Soprattutto nei Paesi occidentali, le persone hanno una percezione negativa dei composti sintetici, e tendono a preferire quelli di origine naturale anche quando si tratta dello stesso identico composto. E ciò si riflette persino nel caso dei detergenti ‘‘eco’’, spesso erroneamente creduti più sicuri e meno nocivi rispetto ai prodotti senza questa etichetta.
Interessante anche il bias del contagio, ossia in sostanza l’idea che l’effetto di un composto non dipenda dalla dose, ma solo dal fatto che possa contaminare qualcosa. “Ho l’impressione che nei Paesi in cui sono successi grandi incidenti chimici che hanno avuto un forte impatto mediatico l’effetto sia ancora più accentuato”, commenta Bressanini. “Pensiamo al disastro di Seveso del 1976, alla questione dell’erbicida atrazina nell’acqua, o al disastro di Bhopal in India nel 1984: scandali come questi hanno via via eroso la fiducia dei cittadini verso il mondo dell’industria chimica, e hanno diffuso l’idea che certe sostanze siano da evitare a prescindere”.
Lo scetticismo degli europei
E proprio su questo punto, sulla già citata questione della fiducia, Nature spiega che in assenza di una competenza specifica le persone decidono di affidarsi al parere di chi reputano autorevole, di chi ritengono meriti fiducia. “Facciamo l’esempio degli alimenti”, aggiunge Bressanini: “nonostante in Europa si abbia una legislazione molto stringente e un’autorità europea per la sicurezza alimentare – l’Efsa – i cittadini tendono a essere scettici”. Un caso emblematico è quello dei conservanti. “Da un lato vogliamo avere cibi che si conservino a lungo, e in questo senso i conservanti sono utilissimi perché evitano le infezioni alimentari, oltre a essere ben controllati e dosati. Nonostante siano un grande successo, generano sospetti. Le persone tendono a non fidarsi, creando un controsenso paradossale: non credo che la causa sia la scarsa conoscenza della tossicologia, ma il venir meno della fiducia nell’industria alimentare”.
“La cosa che trovo più strana”, prosegue Bressanini, “è che la sfiducia non riguarda solo le aziende, dall’alimentare al farmaceutico, ma pure le istituzioni. Non ci si fida nemmeno di chi è lì per proteggere i consumatori. A livello politico bisognerebbe cercare modi per ristabilire questa indispensabile fiducia”.
Cosa intendono le persone quando parlano di chimica
Accanto ai meccanismi di natura psicologica e culturale, per capire fino in fondo il significato delle statistiche sulla chemofobia può essere utile provare a interpretare non tanto quello che ha in mente chi ha formulato le domande del sondaggio, ma quello che viene recepito dai rispondenti. “Quando le persone dicono che non vogliono avere ‘la chimica’ o ‘le sostanze chimiche’, posso intendere cose diverse”, chiarisce Bressanini. “In alcuni casi ci si riferisce alle sostanze sintetizzate in laboratorio. A partire dalla percezione errata che se una molecola è fatta dall’uomo sia diversa da quella fatta dalla natura.
Come se la riproduzione artificiale fosse imperfetta. Altre volte invece si intendono sostanze che non esistono in natura e create dall’uomo. Il ragionamento che si fa è che, siccome l’umanità non è mai venuta a contatto con quelle sostanze nella sua storia, non ha mai imparato a conoscerle e a difendersi da loro”.
La percezione cambia a seconda del nome
Un caso emblematico di quanto la questione sia complessa è quello del bicarbonato di sodio. Quello che troviamo sugli scaffali è un prodotto del tutto frutto di sintesi industriale. Eppure nessuno se ne preoccupa. “Le persone si giustificano dicendo che esiste anche in natura. Intendendo i minerali di bicarbonato”, spiega Bressanini. “Oppure, al contrario, ci sono persone spaventatissime quando leggono nella lista ingredienti parole come riboflavina. Perché non sanno che è semplicemente il nome scientifico della vitamina B2. Solo cambiando il nome, la percezione cambia completamente. Non si può ridurre tutto a un problema di scarsa alfabetizzazione scientifica, però di sicuro se si hanno un minimo di conoscenze, e si masticano un po’ di termini tecnici, si è più al riparo da queste cose”, conclude.
Per testare la resilienza delle persone di fronte alla chemofobia c’è chi usa la celebre beffa del monossido di diidrogeno. Uno scherzo in cui si demonizza questa misteriosa sostanza chimica, salvo poi svelare che è solo un modo arzigogolato per indicare l’acqua. Ma in realtà questi meccanismi di errata percezione possono essere sfruttati anche per suscitare reazioni ad hoc nelle persone. Tanto per finalità di marketing nelle campagne pubblicitarie quanto per la propaganda politica.