Il piano che prevede di portare Internet a 14,7 milioni di famiglie risale al 2015. Su 7mila progetti completati 13.
Quando parliamo di digital divide e banda larga in Italia c’è una questione fondamentale di cui tenere conto: l’orografia. Nel nostro paese le aree montane e di alta collina coprono il 48% del territorio, sono abitate da otto milioni di persone e producono il 10% del PIL. Un vecchio adagio dice che la sicurezza di chi vive in città (ecologica, idrogeologica, ambientale) dipende dalle montagne, e che se non ci ricorderemo di loro, saranno loro a ricordarsi di noi. Mantenere un presidio attivo è fondamentale e dipende anche dalla qualità dei servizi di connettività: è più difficile vivere e fare economia in una montagna isolata dal mondo.
Che cosa sono le aree bianche
E qui arriviamo a parlare dei ritardi nel piano nazionale di cablaggio presentato quasi cinque anni fa dal Ministero dello Sviluppo Economico. Il primo termine tecnico con il quale familiarizzare è quello di «aree bianche», quelle a «fallimento di mercato», nelle quali gli operatori privati non fanno investimenti per portare la banda larga perché sarebbero in perdita («a fallimento di mercato») dal punto di vista economico. In queste aree bianche ricadono formalmente 7439 comuni in tutte le 20 regioni italiane.
Il dato risulta abnorme perché ci sono puntini bianchi in quasi ogni città italiana, comprese Roma e Torino, ma secondo le stime di Uncem (Unione nazionale comuni comunità enti montani), i comuni montani o rurali con ampi problemi di connettività, che hanno davvero bisogno di questo piano per essere collegati alla banda larga sono circa 6mila (che resta comunque un numero altissimo, un’ottima misura del digital divide sul territorio italiano). Secondo Uncem, circa il 60% dell’Italia è area bianca, tra zone montane, rurali e interne, che può essere connessa alla rete solo con l’interessamento dell’investitore pubblico, ed è per questo motivo che nasce il piano.
Un quarto degli italiani aspetta invano la Banda larga
Il Piano Aree Bianche risale al marzo 2015, è un progetto che prevede la copertura di quasi dieci milioni di unità immobiliari, per portare Internet a 14,7 milioni di italiani. Secondo i dati del MISE, il 24,6% della popolazione vive in un’area bianca, un italiano su quattro. L’investimento è di 3 miliardi di euro e i cantieri sono di due tipi. Fibra ottica FTTH, Fiber To The Home, quella che arriva direttamente a case e imprese, e FWA, Fixed Wireless Access, con accesso Wi-Fi, per la situazioni geograficamente più impervie o per i comuni più sparsi. Entro il 2021 il piano dovrebbe essere concluso, i fondi europei dovrebbero essere stati spesi e rendicontati, e gli italiani delle aree bianche dovrebbero connessi.
13 progetti su 7mila
Ecco, non siamo nemmeno lontanamente vicini a quell’obiettivo. Secondo i dati aggiornati al dicembre 2019 i progetti terminati e collaudati, sul totale di oltre 7mila previsti, sono 13. Tredici. Lo 0,17% del totale. Se guardiamo la colonna lavori terminati, il passaggio precedente, senza il collaudo e l’attivazione vera e propria, saliamo a 352, il 4,7%. In quattro anni di piano per ora non si è riusciti a portare la rete nemmeno al 5% dei comuni interessati. Il resto degli status operativi è una lunga sequenza di progetti in attesa di essere approvati, approvati ma non ancora partiti, oppure in esecuzione. La situazione è di un ritardo di quasi un anno e mezzo rispetto alla tabella di marcia.
I motivi del ritardo
«Ci rimangono due anni per completare un intervento diventato a questo punto gigantesco per i tempi a disposizione e la mole di lavoro da fare», spiega Marco Bussone, presidente di Uncem. «Rischiamo di andare oltre il 2021 e di perdere fondi già stanziati». Le ragioni dei ritardi ci riportano tutte o quasi all’orografia dell’Italia. Fatto uno: la neve. «Sulle Alpi quest’anno ha iniziato a nevicare a novembre, in generale sulle aree montane per cinque mesi all’anno non si può lavorare». Fatto due: la complessa burocrazia legata agli interventi. «Questi reti attraversano strade, autostrade, reti ferroviarie. Ogni volta che succede si deve aspettare l’autorizzazione di un gestore, che sia RSI o ANAS o una sovrintendenza, e si perdono mesi». Fatto terzo: i fornitori. I tre bandi nazionali di Infratel (società inhouse del MISE) sono stati vinti da Open Fiber, che ha la responsabilità operativa del progetto, e segue un elenco di priorità stabilite da Infratel con un algoritmo molto complesso. «Gli interventi procedono senza una vera logica geografica, non si passa quasi mai da un comune a quello vicino. E mancano manodopera e competenze nelle fasi di subappalto».
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«Non si tratta solo di poter guardare le partite di calcio o le serie su Netflix», spiega Bussone, «Questo è l’ultimo treno che abbiamo per risolvere criticità sostanziali legate a cosa possono fare certi territori e cosa no. Il tema domina le campagne elettorale locali, i cittadini continuano a chiedere ai sindaci: ma quando arriva Internet?». La connettività serve alla competitività delle imprese e dei distretti (molte devono investire di tasca loro per deviarsi una fibra e rimanere sul mercato), al funzionamento delle amministrazioni locali, al loro dialogo, alla qualità dei servizi e della vita nelle aree interne e montane. La banda larga non è l’unico problema, il digital divide è un tema articolato e complesso, che si inserisce in un quadro più ampio nel quale ci sono anche 1200 comuni che hanno difficoltà di ricezione telefonica e cinque milioni di italiani che non riescono a vedere nemmeno i canali Rai, problema che si accentuerà con il nuovo switch off. «Dobbiamo fare in fretta, perché è un problema di tenuta sociale ed economica di territori che co digital divide continuano a sentirsi abbandonati».