Un progetto per metà innovazione digitale e per metà esoterica speranza nel futuro. Arctic World Archive contiene quello che l’umanità vuole conservare di sè nei millenni
Per entrare nell’Arctic World Archive servono un casco, una luce frontale e buoni polmoni. Più ci si inoltra nei cunicoli di questa miniera di carbone dismessa a Spitsbergen, l’isola principale delle Svalbard, e più il buio diventa denso, l’ossigeno scarseggia e si procede a piedi, lungo i binari che portavano alla vecchia stazione dei pompieri, che oggi è il cuore di questo progetto per metà innovazione digitale e per metà esoterica speranza nel futuro. A essere prosaici, l’Arctic World Archive è un grosso hard disk nel permafrost. Per chi preferisce la metafora biblica, è un’arca di Noè nel ghiaccio artico. Siamo al 78esimo parallelo, le isole Svalbard si trovano a metà strada tra Capo Nord e il Polo Nord, da Oslo sono tre ore di volo. La sovranità sull’arcipelago è norvegese, ma è regolata da un trattato internazionale che ha appena compiuto cento anni: tutti i cittadini dei paesi firmatari possono stabilirsi, lavorare e sopravvivere (se riescono) qui. In questo secolo le isole sono state destinazione per pionieri, minatori, scienziati, documentaristi: qui Netflix ha girato le scene con gli orsi polari nella sua docu-serie Il nostro pianeta.
Un archivio dell’umanità a prova di apocalisse
Da qualche anno, oltre al turismo, alla ricerca scientifica e a un vitale birrificio artigianale, alle isole Svalbard hanno deciso di riconvertirsi dalle estrazioni minerarie al business delle arche di Noè. Il progetto più grande e famoso è il Global Seed Vault, il deposito di tutta la conoscenza agricola umana, aperto nel 2008 in un’altra vecchia miniera dell’isola principale. A pochi minuti di strada, tre anni fa è stato inaugurato l’Arctic World Archive, entità indipendente ma pensata con lo stesso principio: fare con la conoscenza e l’arte quello che il Global Seed Vault ha fatto con i semi. Conservare a prova di apocalisse, climatica, nucleare, politica: qualunque cosa accada i file rimarranno lì, per i nostri discendenti o quello che ne rimarrà. L’esistenza stessa di questo archivio artico è una peculiare combinazione di pessimismo e ottimismo. Non sappiamo come andranno le cose come umanità, ma potremmo aver comunque bisogno di vedere com’era fatto un Rembrandt, un manoscritto della Divina Commedia, un film di Gabriele Salvatores (nel 2019 è stata depositata una copia di Mediterraneo restaurata da Infinity Lab).
La conservazione digitale
Il progetto è una collaborazione tra Store Norske Spitsbergen Kulkompani, la società mineraria di Stato norvegese, che ha messo a disposizione gli spazi e il suo know how su come funziona l’interno di una miniera, e Piql, un’azienda specializzata nella conservazione digitale a lungo termine, che produce i supporti digitali «future proof». A vederli e trasportarli sembrano pizze di film da consegnare a una sala cinematografica, il contenitore è bianco e sopra c’è una bandierina del paese donatore e una breve descrizione del contenuto. In effetti la base concettuale del supporto è una pellicola: ogni fotogramma però è un QR code che contiene i dati digitali da conservare. Il supporto è garantito da radiazioni, esplosioni nucleari e disastri vari almeno 1000 anni. Non servono migrazioni, come con i nostri hard disk, e non sono possibili cyber attacchi, perché l’archivio è offline. I contenuti possono essere consultati dai loro possessori, ma le copie fisiche nella vecchia miniera sono raggiungibili solo a piedi, col casco e la luce. Nei prossimi anni sarà costruito un visitor center chiamato The Arc, perché anche i laici norvegesi sono sensibili al fascino della metafora biblica. Sarà progettato dagli architetti dello studio Snøhetta e dai designer di Tellart.
Dal Nuovo Testamento ai documenti dell’Agenzia Spaziale Europea
Ogni anno all’ingresso della miniera si tiene una piccola cerimonia, che celebra l’ingresso dei contenuti in questa specie di hall of fame della memoria umana a lungo termine. Nel 2019 si è tenuta a febbraio, in pieno inverno e subito dopo l’alba artica, quando la luce riappare sull’arcipelago dopo mesi di buio. Le delegazioni più fornite erano il Vaticano, con 60 documenti della Biblioteca Apostolica, e l’Italia. Sono stati affidati alla miniera uno dei più antichi manoscritti del Nuovo Testamento, i documenti della Fundación Felipe Gónzalez, che testimoniano la transizione alla democrazia della Spagna post-franchista, una parte dei dati dell’Agenzia Spaziale Europea sul cambiamento climatico, un archivio antropologico sulla vita delle donne in Namibia negli ultimi vent’anni e decine di altri pezzi di culture da ogni continente. Insomma, un insieme eterogeneo di frammenti: come ogni memoria che si forma, anche questa lo fa assemblando percezioni distanti tra loro, il cui senso e filo logico verrà ricostruito soltanto a posteriori. La cerimonia del 2020 è stata annunciata per il 23 aprile, ancora non si conosce la lista completa delle istituzioni che parteciperanno, ma tra queste ci sarà GitHub, la piattaforma di software collaborativo, che ha annunciato la creazione di un suo archivio per preservare la memoria collettiva degli sviluppatori, una cui copia finirà nell’Arctic World Archive.
Tra i seimila progetti preservati, ci saranno anche i codici sorgente di Linux e Android, le basi di linguaggi come Python, Ruby e Rust, e strumenti di AI come TensorFlow e Fast AI.