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Oggi si celebra la giornata dedicata alle donne e alle ragazze di scienza. Ne parliamo con Sveva Avveduto, dirigente di ricerca nel CNR dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali e Presidente di Donne e Scienza
Non sarà certamente la “Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza” voluta per oggi, 11 febbraio, dalle Nazioni Unite ad accorciare il gap maschi-femmine, ma è anche sul terreno dei simboli che oggi si giocano le grandi sfide; e quella di attirare più donne verso le professioni scientifiche e di raggiungere la parità tra i generi – in ambito formazione, occupazione, processi decisionali – è tra le sfide più grandi che l’Onu ha lanciato alle Università, alla società scientifica, ai Paesi tutti: se la parità resta lontana, con le donne ne esce ferita anche qualunque idea e prospettiva di progresso. Ne parliamo con Sveva Avveduto, dirigente di ricerca nel CNR dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, nonché Presidente di Donne e Scienza, associazione che ha come scopo principale di promuovere l’ingresso e la carriera delle donne nella ricerca scientifica.
L’intervista
Oggi il mondo celebra le donne nella scienza, con la sensazione che ci sia ancora molto da fare. Come siamo messe?
“C’è un lento rimarginarsi del gap di genere, ma ribadisco lento: le ragazze approdano numerose a facoltà come biologia o biomedicina, ma le facoltà scientifiche hard – ad esempio, parlo di ingegneria o di fisica per intenderci – rimangono lontane: all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare il rapporto uomini-donne è 80/20. E il gap nella scelta universitaria si riflette poi, inevitabilmente, sulle professioni di ricerca e sulle imprese, dove le donne che operano sono ancora un numero esiguo. Sia chiaro: il problema non è solo italiano. La situazione si replica in Europa e, possiamo dire, nel mondo.
Lei ha curato il nuovissimo rapporto “Ricerca: femminile, plurale” di GeTa, l’Osservatorio sul genere e i talenti che, nell’analizzare i dati della Commissione Europea sulle risorse umane nel settore Ricerca e Innovazione, ha evidenziato che sebbene le laureate siano più dei laureati, nel momento di passaggio dal dottorato di ricerca all’accesso alla carriera avviene un’inversione di tendenza. Cosa accade esattamente?
“In una tipica carriera accademica, le laureate sono presenti per il 59%, le dottorande e le dottoresse di ricerca al 48%, mentre solo il 46% sono ricercatrici, il 40% professoresse associate fino ad arrivare al 24% delle docenti ordinarie. La distribuzione delle donne nelle carriere accademiche in Science, Technology, Engineering and Mathematics (STEM) appare ancor più problematica, in quanto sin dall’accesso ai corsi di studio le donne sono in minoranza rispetto agli uomini, 32% contro 68%; percentuale che si contrae al 35% tra le ricercatrici, al 28% delle associate fino al 14% delle ordinarie”.
Quindi, se anche ci fosse un accesso universitario pari tra uomini e donne, nel tempo si riproporrebbe una forbice piuttosto drammatica.
“Lo sviluppo di carriera continua a penalizzare le donne, che difficilmente arrivano ai vertici. Nel nostro Paese i ricercatori maschi fanno carriera più velocemente e in modo più avanzato”.
Sappiamo che le ragioni di questo divario sono plurime e complesse. Secondo lei qual è la più determinante?
“Come dice lei, ci sono diversi problemi a monte, di cui il più pesante e dunque quello che comporta una soluzione più ardua e lenta è rappresentato dagli stereotipi che vengono trasmessi alle bambine già da quando sono alla scuola materna: ovvero che non sono adatte agli studi e alle professioni tecniche e scientifiche. La sensibilità di tutti sta cambiando, ma ci vorrà ancora molto tempo, purtroppo, per scardinare stereotipi e convinzioni sessiste assai radicate”.
E però si può accelerare. Ci sono esperienze di successo che possono essere replicate? Cosa succede in Paesi emancipati come quelli del Nord Europa?
“Per esempio, all’Università di Groningen, in Olanda, si è deciso di riservare alcune cattedre alle docenti donne”.
Si tratta di quote rosa, ovvero di un numero di posti obbligatoriamente destinati alle donne: lei le condivide e a suo parere sono efficaci in ambito scientifico?
“Io per qualche tempo non le ho condivise, poi mi sono convinta che in questo momento possono essere un necessario grimaldello per rompere equilibri vecchi e rigidi. Sempre citando esperienze del Nord Europa, voglio mettere in luce l’iniziativa dell’Università di Oslo, dove si sono avviate misure interessanti per ridurre le molestie e i ricatti sessuali, che sono un macigno sulla carriera delle donne, sebbene non se ne parli mai”.
Ha toccato un tema dolente e davvero molto taciuto.
“Si tratta di atteggiamenti discriminatori e di molestie che vanno dalle mani addosso alle battute sessiste, un universo di molestie che fanno sentire le donne sole e umiliate. E che spesso le spinge a lasciare l’università nella quale intendevano stare. Per non dire, appunto, dei ricatti sessuali legati all’avanzamento della carriera. Nelle università italiane potrebbero essere istituite figure o organismi atti a raccogliere le denunce, come già accade in alcuni atenei nel mondo”.
In Italia, le università stanno promuovendo eventi di vario tipo per sensibilizzare le ragazze alle materie Stem. Ma ci sono misure sistemiche che stanno riequilibrando la presenza delle donne?
“In diversi atenei si redigono annualmente i cosiddetti bilanci di genere, strumenti che hanno l’obiettivo di valutare in un’ottica di genere le scelte attuate dall’ateneo e incentivare le azioni in direzione delle pari opportunità. La prima università a redigerne uno è stata quella di Ferrara e altre – circa una ventina – ne hanno poi seguito l’esempio: recentemente, la Conferenza dei rettori delle università italiane ha istituito un gruppo di lavoro per analizzare come il bilancio di genere possa essere utilizzato nella governance degli atenei. Io stessa sono stata incaricata di redigere entro l’anno quello CNR. Si tratta di misure molto importanti e che, a mio parere, sono destinate a incidere ma, come ho detto, il tema culturale è essenziale”.
Quali buone pratiche, molto concrete, secondo lei sarebbero cruciali per rompere certe rigidità culturali legate al genere?
“Esattamente come in istituzioni e imprese vengono previsti corsi di formazione – vedi quello per la sicurezza -, bisognerebbe che si organizzassero momenti di studio per identificare le pratiche che generano i gender bias e le varie distorsioni legate al genere. E poi, bisognerebbe dare visibilità alle donne delle STEM, specie se in posizioni apicali. E invece a livello mediatico la scienza è ancora rappresentata dalle figure maschili: tutti abbiamo ricordo di immagini di convegni in cui al tavolo figurano esclusivamente uomini, ed è estremamente positivo che oggi ci siano uomini che si rifiutano di prenderne parte. Ecco, se la scienza venisse rappresentata anche dalle donne, donne perdipiù in posizioni apicali nelle università, negli istituti di ricerca, nelle imprese, le ragazze sarebbero facilitate nell’approcciare le materie STEM: è il tema della presenza di modelli di ruolo a cui le più giovani possano ispirarsi, un punto debole del nostro Paese, e comunque non solo del nostro”.