Il governo annuncia le nuove regole per l’immigrazione, che favoriscono lavoratori qualificati e ad alto reddito
“Londra ti toglie dieci anni di dosso” ripeteva l’amica prima di partire. Ognuno se ne va per un motivo. Chi per studio, chi per necessità, chi perché ha bisogno di sparigliare le carte.
La capitale britannica per tanti è stata questo: un modo per ricominciare, scappando da una realtà asfittica. Che si chiamasse Italia, Polonia, Bulgaria, Spagna, poco importa. La città, a suo modo, accoglieva: severa ma giusta, era facile aprire un conto in banca, facile trovare lavoro in uno dei tanti locali, facile perderlo, facile rimettersi in gioco bussando al portone dell’insegna pochi metri più avanti. Perché nella ristorazione trovava impiego buona parte della manovalanza continentale; oppure nelle costruzioni, nell’idraulica, nei trasporti.
C’è stato un tempo in cui, per le strade di Soho, era più semplice chiedere un’indicazione in italiano che in inglese. Anche perché molti la lingua di Shakesperare e dei Rolling Stones non l’avrebbero mai imparata. Ma era questo il modello britannico: comunità separate che coesistono ignorandosi, nel nome del benessere di Sua Maestà la Regina e del suo popolo. Di fronte a Buckingham Palace campeggiano ancora le colonne che ripercorrono i fasti dell’impero che fu: India, Australia, Sudafrica, posti esotici dove la maggior parte degli europei ancora oggi non ha messo piede, e che contribuivano, invece, all’economia britannica sin dal Settecento. Sembrava funzionare. Poi qualcosa si è rotto.
Il vento aveva cominciato a cambiare già nel 2014. Qualcuno si approfittava dei sussidi generosamente elargiti, e si portava dietro la famiglia, mettendola a carico del welfare. Le banche, prima così rapide nella corsa ad accaparrarsi i clienti, impreovvisamente diventarono di bocca buona: niente conto corrente, senza un lavoro ben pagato. Tanti arrivano, troppi se ne vanno, spiegavano allo sportello. Vero: faceva parte del gioco fermarsi un po’ di tempo in città e poi saltare di nuovo su un aereo. Troppo stress, troppa confusione, troppo tempo passato sui mezzi pubblici per chi – ed era la maggior parte – non poteva permettersi di abitare vicino al centro.
Non neghiamolo: a Londra la vita, per chi non lavorava in finanza, non faceva l’ingegnere o il dottore, era affascinante ma difficile. Le notti sfrenate erano gonfie di storie amare, come le acque del fiume in cui tanti connazionali si gettavano in preda alla disperazione e alla vergogna: solo che questo sui giornali non usciva. L’ambasciata, costretta a rimpatriare i cadaveri sui voli di linea, fu obbligata a varare un “Progetto primo approdo” per cercare di avvisarli in tempo: se venite con duecento euro in tasca, senza sapere la lingua e credete di trovare l’Eldorado, ripensateci.
Nel 2016 il referendum, poi 3 anni di limbo, e venti giorni fa il Brexit day: Boris Johnson, personaggio caricaturale alla Trump, ha chiuso definitivamente il discorso il 31 gennaio. Un anno di tempo per regolare le questioni in sospeso, poi confini chiusi come prima del 1973.
Brexit, quanti punti servono per lavorare in UK?
Ora si comincia a fare sul serio. Mercoledì il governo ha annunciato il nuovo sistema a punti per gestire l’immigrazione in UK, ispirato al modello australiano. Nessuna novità in vista per chi è provvisto del settled status. Discorso diverso per gli altri: per restare dopo il periodo di transizione (che terminerà il 31 dicembre) sarà essenziale ottenere un’offerta da un datore di lavoro certificato (20 punti), essere qualificato per l’impiego in questione (20 punti) e parlare inglese fluente (10 punti). Un salario oltre le 25mila sterline (20 punti) consente di raggiungere i 70 crediti necessari a non avere problemi. Insomma, dentro i lavoratori qualificati e ad alto reddito, fuori gli altri. Punti extra sono disponibili per chi è in possesso di dottorati e chi si propone in settori in cui c’è scarsità di personale.
Le reazioni non sono tardate. Gli industriali se la sono presa con il governo accusandolo di conseguenze “disastrose” sull’economia che porteranno alla chiusura di fabbriche e negozi. E non a torto: se anche il Guardian, quotidiano di sinistra, scrive che finisce “l’era del lavoro a basso costo dall’UE per fabbriche, magazzini, hotel e ristoranti”, si comincia semplicemente a dire le cose come stanno, senza troppa retorica. Quello che gli expat hanno sempre saputo, perchè certi lavori, i locals, non volevano più farli. Il comparto sanità parla di “disastro assoluto” in vista, dato che infermieri e badanti guadagnano di solito stipendi bassi. Anche i laburisti si sono dichiarati assolutamente contrari: ma non si capisce che tipo di sistema avesse in mente Jeremy Corbyn, mai esplicito per tre anni nel prendere posizione contro la Brexit. Bruxelles, ha sempre pensato tra sé, è solo un covo di capitalisti.
Nessuna possibilità per i freelance o per i liberi professionisti – muratori, avvocati, architetti -: da gennaio gli europei diventano extracomunitari a tutti gli effetti. Ne sappiamo qualcosa: la legge Bossi-Fini sull’immigrazione prevedeva un meccanismo simile in Italia, in cui la richiesta di permesso doveva essere accompagnata dalla certezza di un impiego da trovare prima dell’arrivo. Poco da meravigliarsi, quindi. Nuove regole anche sulle carte di identità: bando a quelle nostrane e a quelle francesi, ritenute – non a torto – troppo facili da falsificare per chi è in vena di fare il furbo.
E Brexit sia, se così doveva essere. Inutile fare previsioni su quel che accadrà. Niente è irrecuperabile se le cose dovessere andare male: le frontiere, una volta chiuse, si possono sempre riaprire, e questo Johnson lo sa. Ma di certo finisce un’epoca. Chissà che aspetto avranno le strade della capitale britannica fra qualche anno. E se, tra le vie di Soho, l’inglese tornerà ad essere la lingua più parlata.