L’epidemia nella storia raccontata dal Presidente dell’Associazione dei Microbiologi Clinici Italiani: “Da una patologia terribile, quale l’ebola, abbiamo studiato e progettato metodi efficacissimi di contrasto al contagio”
Smarrimento e disorientamento sono la cifra, inevitabile, di queste ore: è doveroso informarsi, ma, soprattutto, affidarsi al parere, fondato, della comunità scientifica, “formata” per fronteggiare la straordinarietà di eventi in continuo divenire. La razionalità dovrebbe ispirare tutti noi, per contenere, più che la diffusione del virus, atteggiamenti altalenanti tra ingiustificato panico e irresponsabile sottovalutazione. “Per prima cosa, sgombriamo il campo dall’equivoco di fondo di queste settimane, liberandoci da immagini di funesti Lazzaretti e carri di appestati. Sono scenari che appartengono alla dimensione storica o cinematografica, e lì occorre lasciarli”: così Pierangelo Clerici, Presidente dell’Associazione dei Microbiologi Clinici Italiani (Amcli), definisce i contorni di una situazione nuova, in quanto “inedito” è il virus che ci troviamo a combattere, ma che nulla ha a che vedere con le epidemie dei secoli passati, letali per decine di milioni di persone. Dall’epidemia del Medioevo -la prima di cui abbiamo una descrizione, grazie alla ricostruzione del Boccaccio in una novella del Decamerone- fino a quella di queste ore, passando per la peste del 1630 di manzoniana memoria, si ritrovano alcune costanti.
L’intervista
Prof. Clerici, inserendo le “grandi” epidemie nel percorso storico in cui si sono sviluppate, paiono presentarsi come prodotto di fenomeni di globalizzazione. È così?
La globalizzazione di questo ultimo decennio non è la prima: ogni ciclo storico è stato segnato da una propria forma di “globalizzazione”, proporzionale ai confini di quel tempo e di quel mondo. Un mondo sempre più grande, in cui, però, le distanze si accorciano sempre più, fino ad azzerarsi. E questo grazie ad internet e ai social network: potremmo dire che il coronavirus è la prima epidemia testimoniata dall’informazione globalizzata: non a caso si parla di infodemia. I microorganismi hanno sempre viaggiato con le persone, hanno accompagnato gli eserciti e i legionari, hanno seguito le rotte di flotte ed equipaggi, si sono diffusi con le merci e gli scambi.
Sono, dunque, il segno del progresso. È inevitabile pagare il prezzo della seconda faccia della medaglia?
Il fenomeno va preso e interpretato in tutta la sua complessità e “globalità”, appunto. Un effetto collaterale dell’isolamento, della quarantena, a cui si è costretti, in presenza di forme epidemiologiche, è la riscoperta della socialità, della condivisione, della solidarietà. È quanto stiamo assistendo proprio in questi giorni. Paradossalmente l’isolamento diviene fattore di aggregazione, riporta ad una dimensione concreta dei rapporti umani, raduna i singoli individui in una comunità. Una comunità che vive le stesse paure e speranze, che ha di che dialogare, che collabora, e, quindi, cresce. E così la civiltà evolve.
In soli due anni -dal ’18 al ’20 del secolo scorso- la spagnola provocò decine di milioni di decessi. Vogliamo sottolineare cosa impedisce il riproporsi di uno scenario simile?
Una serie di elementi determinanti. Allora si era in una fase postbellica e in un’epoca pre-vaccini. Un’intera generazione era stata decimata al fronte, migliaia di sopravvissuti uscivano prostrati da un conflitto durissimo: un paese preda della fame, senza alcuna pratica igienica, con vivo ancora il fantasma della guerra, era inevitabilmente esposto al dilagare di agenti patogeni. Quale metodo di difesa o strumento di contrasto avrebbe potuto porre argine ad uno sterminio di massa?
Infatti, si impose poi la questione di un welfare sanitario che garantisse a tutti i cittadini un livello minimo di assistenza e cura
Esatto. Analogamente, dopo l’epidemia dell’Asiatica del ’57, di portata inferiore alla Spagnola, ma sempre letale per milioni di individui, si puntò alla necessità di un certo standard delle condizioni igieniche, nacquero discipline quali la virologia e l’epidemiologia, che divennero materie di studio, e, dopo l’influenza Hong Kong del ’68, addirittura, materia per l’opinione pubblica. Quegli anni coincisero con i primi interventi di trapianto di cuore, gli stessi in cui radio e televisioni entravano nelle case degli italiani con notiziari e speciali di medicina. Si formava nel paese una nuova coscienza collettiva, la consapevolezza dell’importanza della medicina, della cura, delle buone pratiche. Si introducono, così, le prime campagne di sensibilizzazione, ad esempio, contro la tubercolosi, nelle scuole, e, contemporaneamente, l’opinione pubblica viene resa partecipe dei progressi della ricerca e responsabilizzata nel sottoporsi a screening periodici e si comincia a parlare di prevenzione.
Nell’era dell’informazione “virale” diventa, però, fondamentale distinguere freddamente la dimensione dalla percezione del problema.
Infatti. La Sars nel 2002, sebbene non raggiunse mai il nostro paese, ebbe molta eco, perché il medico italiano Carlo Urbani delll’OMS ne fu colpito e ne morì, mentre la Mers, che nel 2013 si diffuse in Medioriente, pur presentando un tasso di mortalità del 35%, ben maggiore del 12% della Sars, non fu mai percepita come una reale minaccia.
Cosa hanno insegnato le ultime esperienze epidemiologiche che oggi risultano utili nel contrasto al coronavirus?
Da una patologia terribile, quale l’ebola, che ha un tasso di mortalità fino al 70%, e che nulla ha a che vedere, nemmeno lontanamente, con il virus oggi in circolazione, abbiamo studiato e progettato metodi efficacissimi di contrasto al contagio. Penso ai sistemi di trasporto in biosicurezza, alle cabine di biocontenimento, alle isole per la gestione dei pazienti, ai monitor per l’operatività del personale sanitario. In presenza di epidemia, si tratta di passaggi fondamentali. Che fanno la differenza.