Il caso Hong Kong ci insegna che questa chiusura totale potrebbe essere solo la prima di una serie. Ne parliamo con Fabio Sabatini direttore dello European PhD Programme in Socio-Economic and Statistical Studies
«Come sarà la transizione per uscire dal lockdown attuale?» è una domanda articolata, che contiene diverse risposte, nessuna facile da formulare. Il primo fatto è che l’onda dell’epidemia in Italia sta perdendo forza e – pur i con i dati imperfetti in nostro possesso – è possibile fare previsioni su quando i contagi potrebbero arrivare a zero, regione per regione.
È quello che ha fatto l’Einaudi Institute for Economics and Finance di Roma. Per la seconda settimana di maggio i nuovi contagi potrebbero essere arrivati a zero, con un andamento a scaglioni, dal 14 aprile del Veneto al 5 maggio della Toscana. Quando si può dichiarare conclusa un’epidemia? Secondo l’OMS servono due cicli completi di incubazione, quasi un mese dall’ultimo caso.
Il pericolo di importare nuovi casi
La domanda – con una pandemia in corso – è: liberi a che livello? Anche se a quello nazionale dovessimo arrivare a zero casi tra un mese e mezzo, ci sarebbe comunque il rischio di nuovi contagi di importazione, come successo in Cina. «La possibilità di importare il virus è un ulteriore elemento di complessità. Anche se si azzera il contagio per diversi giorni, la malattia può tornare dall’estero. Non credo in nessun caso nella chiusura delle frontiere, ma sarebbe necessario un tracciamento severo delle persone che entrano, come hanno fatto la Corea del Sud e Taiwan», spiega Fabio Sabatini, professore associato di Politica Economica presso la Sapienza, direttore dello European PhD Programme in Socio-Economic and Statistical Studies, nonché uno degli osservatori più acuti e ascoltati sull’emergenza. In sostanza, il rubinetto chiuso con il lockdown di marzo può essere aperto solo con molta cautela.
Il secondo lockdown di Hong Kong
Un modo per capire cosa aspettarci è guardare verso Hong Kong. L’isola, grazie a un’efficace strategia di contenimento, sembrava aver superato il picco dell’epidemia sul proprio territorio – uno dei più densamente popolati al mondo – senza troppi danni: pochi casi, pochi decessi, poco impatto. A inizio marzo era stato sospeso lo smart working per i dipendenti pubblici, bar e ristoranti erano stati riaperti e tutto sembrava incredibilmente normale. Troppo normale. E infatti c’è stato un nuovo picco che ha portato a un secondo lockdown: vietati gli assembramenti, parchi e cinema chiusi, lavoratori a casa. «Abituatevi, questo lockdown non sarà l’ultimo», ha scritto Timothy McLaughlin su The Atlantic. «Attraverseremo diversi cicli di chiusura e allentamento prima di raggiungere una soluzione definitiva», ha dichiarato Gabriel Leung, preside della facoltà di medicina di Hong Kong e un’esperienza di contenimento delle epidemie che risale alla SARS di inizio millennio.
Anche Sabatini è di questo avviso: «Bastano focolai molto piccoli per far ripartire l’epidemia. Dopo un lockdown, il contagio può intraprendere nuovamente una traiettoria esponenziale, a meno che non intervengano fattori di contenimento esogeni – come una mutazione del virus – o non si trovino una cura o un vaccino in tempi brevi. Ancora non sappiamo se la malattia porti immunizzazione e per quanto tempo, quindi non è chiaro in quale misura l’immunità di gregge sia perseguibile. In mancanza di questi elementi, è ragionevole aspettarci altri lockdown».
Prima un periodo di martello e poi uno di Danza o yo-yo
Danza o yo-yo sono le metafore da usare per capire come andranno i cicli tra la fine della prima emergenza e un vero ritorno alla normalità, quella che conoscevamo prima del Covid-19. In un post molto condiviso, scritto da Thomas Pueyo (che è un ingegnere e non un epidemiologo) si parlava dell’alternanza di martello e della danza come risposta in due tempi alla pandemia. Prima viene il martello: agire rapidamente e aggressivamente sul distanziamento sociale per abbassare la curva dei contagi, come fatto (più o meno, con varie esitazioni dovute allo shock iniziale) dall’Italia e dagli altri paesi europei. Dopo il martello arriva la danza, che corrisponde ai cicli di apertura e chiusura di cui parla Leung, il periodo tra il martello e il vaccino. Lo possiamo anche chiamare yo-yo, il concetto di fondo è lo stesso e in questo caso il copyright è dell’economista americano Tyler Cowen, in un’analisi sull’ormai famoso studio dell’Imperial College di Londra sulle strategie di soppressione (circa tre mesi) e successiva mitigazione dei contagi.
Danza o yo-yo che sia, potrebbe funzionare più o meno così: «Quando si arriverà a un’attenuazione significativa dei nuovi casi si potrà, sulla base di valutazioni caso per caso, allentare gradualmente le misure in maniera proporzionale al rischio», come ha dichiarato al Manifesto Giovanni Maga, biologo che dirige il laboratorio di Virologia Molecolare del CNR di Pavia. «Ad esempio, se in una Regione rimanesse una circolazione bassa limitata ad alcune zone si potrebbero creare cordoni di contenimento attorno a quelle zone e alleggerire le limitazioni su quelle più distanti. Sicuramente nel periodo di transizione verso la normalità le misure di distanziamento sociale andranno allentate gradualmente e sempre con attenzione alla situazione epidemiologica». Aperture e chiusure per fasce di età, per focolai, per settore. Le domande non saranno solo quando apriamo, ma anche dove apriamo e per chi.
Ci aspetta un futuro molto articolato, per il quale però manca ancora un accenno di piano o percorso da parte del governo italiano. Ed è un problema, perché dopo la fase di difesa, contro il virus bisogna passare a quella di attacco, anticipare invece di rincorrere, come hanno scritto Aaron E. Carroll e Ashish Jha, docente di pediatria e professore di salute globale. «È essenziale sapere dove stiamo andando e cosa possiamo aspettarci nel momento in cui si allenta il lockdown», spiega Sabatini. «In questo momento non lo sappiamo e sembra che il governo stesso non lo sappia. Stiamo scontando un certo ritardo dei leader politici nell’elaborazione delle informazioni, aggravato da una cronica difficoltà nell’ascoltare gli esperti. Il fattore tempo è fondamentale: abbiamo aspettato un mese dall’inizio dell’epidemia e 12mila morti per mettere su una task force che trovi risposte innovative all’emergenza».