Per comprendere l’andamento della pandemia i parametri da monitorare sono diversi e come sempre, quando si parla di dati Covid-19, bisogna saperli leggere e interpretare con molta cautela, per evitare il rischio di trarre conclusioni fuorvianti
Il numero dei contagi in Italia continua ad essere consistente e la curva a fine dicembre ha ripreso a salire, anche se in quest’ultima settimana se registra un leggero calo, probabilmente frutto delle chiusure natalizie. Discutere se si tratti di una “terza ondata”, o piuttosto del proseguimento della seconda, appare più un esercizio di stile giornalistico che poco interessa a chi si occupa ogni giorno di dati epidemiologici, come il gruppo di ricerca e divulgazione Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche che ho fondato a marzo 2020.
Per comprendere l’andamento della pandemia i parametri da monitorare sono diversi e come sempre, quando si parla di dati Covid-19, bisogna saperli leggere e interpretare con molta cautela, per evitare il rischio di trarne conclusioni fuorvianti. Vediamo allora tre regole fondamentali che questi mesi di analisi epidemiologica ci hanno insegnato.
Prima regola: mai guardare ai dati giornalieri
Se c’è una cosa che appare chiara dall’inizio dell’epidemia è che i dati giornalieri seguono un pattern ormai ben definito di settimana in settimana, determinato dal numero dei tamponi effettuati (che dal 15 gennaio comprende anche i test antigenici oltre a quelli molecolari): ogni lunedì i nuovi casi positivi registrano sempre un minimo a causa dei pochi tamponi effettuati nel weekend, poi nei giorni successivi i casi aumentano con l’aumentare dei test, fino a raggiungere un picco massimo che ogni settimana si registra tra il venerdì e il sabato. Ha senso dunque stare ogni giorno a commentare i dati delle ultime 24 ore? Da un punto di vista statistico assolutamente no.
Il discorso cambia se invece si guarda alle medie (o ai dati cumulativi) settimanali. In questo modo è facile capire, ad esempio, che dalla settimana del 28 dicembre il numero dei contagi ha ripreso ad aumentare in Italia dopo ben 6 settimane consecutive di decrescita: +13% nell’ultima settimana di dicembre e +12% nella prima di gennaio 2021. Sempre guardando ai dati settimanali, notiamo che in quest’ultima settimana conclusa domenica 17 gennaio, si è registrato un nuovo calo rispetto alla precedente, con il 24% in meno di nuovi casi positivi.
Questo è quasi sicuramento l’effetto del “dpcm Natale” e dell’intero territorio nazionale divenuto “zona rossa” durante le festività. Ricordiamo infatti che i dati che noi registriamo oggi sono sempre la fotografia di contagi avvenuti circa 15-20 giorni fa: questo è il tempo che in media intercorre tra il momento dell’infezione, la manifestazione dei sintomi, l’effettuazione del tampone, la sua analisi e la trasmissione del risultato.
Seconda regola: diffidare da chi parla ancora di contact tracing
La gestione di una qualunque epidemia si basa sulla magica regola delle 3T: testare, ovvero eseguire tamponi e fare monitoraggio attivo; tracciare, ovvero essere in grado di ricostruire la catena dei possibili contagi a partire da un soggetto positivo (il contact tracing, appunto); trattare, ovvero curare i pazienti malati.
I dati sulla pandemia raccolti a livello internazionale nei mesi di marzo e aprile 2020 e riportati in un celebre articolo di Tomas Pueyo mostrano che i Paesi che hanno meglio contenuto la diffusione del virus sono stati quelli capaci di mantenere il rapporto tra casi positivi e persone testate al di sotto del 3%. Al di sopra di questa soglia accade che il sistema di contact tracing va in affanno, si cominciano a perdere casi positivi per strada e non identificati (magari perché asintomatici) ma liberi di circolare ed infettare a loro volta altre persone. È così che in poco tempo si innesca una dinamica di crescita esponenziale e fuori controllo dell’epidemia, che può essere contenuta solo con rigidissime misure di contenimento come il lockdown.
In Italia questo valore di soglia del 3% è stato oltrepassato il 25 settembre e da allora è salito vertiginosamente, attestandosi intorno al 30%. Si tratta di una percentuale enorme, che indica che il tracciamento è completamente saltato da tempo (come ammettono anche importanti epidemiologi e virologi) e che dunque il numero reale delle persone infette è molto più alto di quello conteggiato nei numeri ufficiali. E anche adesso che nel computo totale dei tamponi sono stati inseriti i test rapidi, il rapporto tra casi positivi e casi testati si aggira ancora intorno al 20%, davvero troppo per pensare al tracciamento.
Proprio questa sottostima dei casi positivi reali rispetto a quelli conteggiati è da tenere ben a mente quando si parla di letalità del virus, ovvero di quante persone uccide in rapporto a quelle infettate: se conoscessimo il reale numero di soggetti positivi, la letalità reale sarebbe notevolmente più bassa della letalità apparente.
Terza regola: il parametro Rt non è un mantra
Uno degli effetti della pandemia è stato quello di far entrare nel vocabolario comune termini del tutto sconosciuti fino a un anno fa. L’esempio più evidente è l’ormai famoso parametro Rt, il Reproduction Number, un importante parametro epidemiologico che indica quante persone in media una persona infetta è a sua volta in grado di contagiare. Se Rt è maggiore di 1, l’epidemia è in una fase di espansione; se minore 1, la curva sta decrescendo; se uguale a 1, la situazione è pressoché stabile, ovvero ogni giorno si registrano più o meno lo stesso numero di infezioni.
Ma il parametro Rt non è solo un artificio matematico bensì uno dei parametri più importanti da cui dipendono le scelte del Governo e del Comitato Tecnico Scientifico (CTS). Ad esempio per determinare, insieme ad altri indicatori, se una Regione debba essere gialla, arancione o rossa.
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) calcola Rt in modo molto accurato a partire dalla data di inizio sintomi delle persone positive. In sostanza ad ogni positivo viene chiesto in quale giorno ha manifestato i primi sintomi e in questo modo viene costruita la curva dei sintomatici. Questo meccanismo (descritto nel paper di Cori at al., 2013), per quanto preciso e sofisticato, determina un enorme ritardo nel calcolo di Rt, che fotografa una situazione vecchia di ben tre settimane rispetto a quella odierna. E infatti, l’ultimo bollettino dell’ISS emanato l’8 gennaio 2021, stima un Rt medio pari a 1,03 ma calcolato nel periodo 15-28 dicembre. Considerato che il prossimo report è uscirà il 15 gennaio, è evidente che il valore di Rt è un po’ troppo datato per poter prendere decisioni rapide e tempestive.
Un’alternativa a Rt è il CovIndex, un algoritmo molto accurato che riproduce fedelmente l’andamento di Rt ma il cui calcolo si basa, invece che sulla curva dei sintomatici, proprio sul rapporto tra casi positivi e tamponi effettuati. Il vantaggio del CovIndex, sviluppato all’interno della piattaforma libera e gratuita CovidTrends, è quello di restituire una fotografia più aggiornata della situazione epidemiologica e di poter intraprendere nuove azioni e misure di contenimento con notevole anticipo rispetto ai bollettini dell’ISS e al parametro Rt.