Può l’urbanistica contribuire alla parità di genere, un traguardo invocato ormai in ogni dove del pianeta e perseguito come il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 dell’ONU? E in che modo, la pianificazione urbana di genere può progettare città finalmente inclusive e ambienti urbani che rappresentano, davvero, il punto di vista e i bisogni della molteplicità dei cittadini? Per la prima volta uno studio su una nostra città – Milano – fa luce sulla condizione delle donne e sui limiti e gli ostacoli che queste incontrano nella vita di ogni giorno e mostra che quando l’urbanistica incontra gli studi di genere e pone lo sguardo sulle persone, sulla vita concreta e sul suo svolgersi nel quotidiano può, in risposta, costruire soluzioni capaci di rivoluzionare le città, a vantaggio di quanti e quante le abitano. Lo studio, che si chiama Sex and the City ed è stato commissionato da Milan Urban Center (ovvero, Comune di Milano e Triennale Milano), è stato condotto da Florencia Andreola, ricercatrice indipendente e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura, e da Azzurra Muzzonigro, architetta, curatrice e ricercatrice urbana indipendente, ed è oggi in parte confluito in un saggio pressoché unico, Milano Atlante di genere (LetteraVentidue Edizioni). Facciamo il punto con le due curatrici.
Non ci riflettiamo a sufficienza, ma le città non sono progettate in maniera neutrale: piuttosto, sono prevalentemente costruite sui bisogni del genere maschile e delle persone che lavorano fuori casa. Donne, bambini, ragazzi, persone con handicap ne sperimentano ogni giorno ostacoli e limiti.
Effettivamente è così: si ritiene che gli standard urbanistici siano basati su soggetti ritenuti neutri, ma questa neutralità sottende in realtà un progetto maschile, esattamente come è sul maschile che è conformata la nostra società. Faccio un esempio molto concreto. Il modello di mobilità che vige è costruito sul lavoro e, perciò, prevede sostanzialmente lo spostamento casa-lavoro e viceversa funzionale alla giornata lavorativa: si tratta di un tipo di movimento tipicamente maschile, perché lascia fuori tutte le attività quotidiane di cura che sono, al contrario, per il 75% sulle spalle delle donne. Per converso, invece, le attività di cura generano spostamenti in città per tappe concatenate, spostamenti segmentati, per lo più locali e pedonali. Si tratta del cosiddetto trip chaining: chi si prende cura di soggetti non autonomi, infatti, la mattina esce, porta i bambini a scuola, quindi va a fare la spesa, infine va al lavoro, ovvero compie tragitti più brevi, non lineari, non composti.
Voi intendete dire che se si mettesse al centro della pianificazione della città la cura anziché il lavoro, si genererebbero città che, almeno sul piano della mobilità, sarebbero completamente diverse da quelle che conosciamo?
Si genererebbe un modo di pianificare la città certamente differente e non implicitamente discriminatorio, perché la si osserverebbe dal punto di vista delle donne, certo, ma anche di tutti quei soggetti che hanno sofferto l’esclusione dalla progettazione modernista del Ventesimo secolo e dal suo paradigma funzionale, che ha prodotto, appunto, quella tipica modalità pendolaristica cui accennavamo prima. La progettazione modernista è basata sul principio della separazione delle funzioni. La città è scomposta in parti a cui sono attribuite funzioni specifiche: l’area in cui si risiede, quella in cui si lavora, quella in cui ci si svaga, eccetera e muoversi dall’una all’altra di tali aree presuppone i grossi spostamenti di cui prima. L’approccio contrario – che è ciò a cui oggi le città tendono, anche in un’ottica post pandemica – è rappresentato dalla città di prossimità, una città i cui quartieri hanno in sé tutto ciò di cui i cittadini hanno bisogno nello svolgersi della vita quotidiana. C’è uno slogan che ben rappresenta questo cambiamento ed è La città dei 15 minuti, ovvero un territorio che in un raggio di 15 minuti a piedi prevede tutti i servizi essenziali, così come quelli di welfare e culturali. Noi non intendiamo certamente costruire una città delle donne che aiuti le donne a svolgere le proprie mansioni, ma provare a capire cosa generi nelle città questo diverso tipo di uso improntato alla cura e metterlo al centro della pianificazione, indipendentemente da chi della cura si faccia carico, sapendo che quando una città riesce ad alleggerire il peso che la cura genera in chi la pratica, finisce per beneficiarne tutta la società: se ci sono asili che funzionano e aree gioco che funzionano, se ci sono servizi igienici pubblici e ascensori nelle metropolitane l’intera comunità ne ha giovamento. Insomma, la città delle donne, se anche esistesse, sarebbe la città di tutte e di tutti e aspirerebbe a una rottura dei ruoli precostituiti.
Ci sono elementi essenziali per comprendere se una città è aperta ai bisogni di tutti? Ne citate uno per tutti?
Gli elementi da osservare per capire quanto una città sia capace di accogliere corpi e soggetti al di fuori del paradigma funzionale sono molteplici, ma può essere sufficiente osservare lo stato dei marciapiedi: se sono stretti, accidentati, se prevedono arredi urbani che rappresentano un ostacolo per passeggini e carrozzine, beh, siamo fuori rotta.
Avete mappato Milano, ne avete censito i servizi, avete realizzato interviste a uomini, donne, ragazze, ragazzi, a tutte le identità non binarie e a chi sta provando a portare innovazione sul territorio. Cosa sta facendo Milano per diventare una città più rappresentativa dei bisogni di tutti?
La progettazione delle Piazze aperte sta, per esempio, provando a rispondere a questa sfida: si tratta di un progetto di urbanistica tattica, vale a dire di urbanistica leggera che ripensa alcuni spazi pubblici attualmente destinati a parcheggi o a mobilità aggressiva – si tratta sostanzialmente di strade con passaggi di auto – per assegnarli ai pedoni e alla biciclette: lo fa attraverso arredi temporanei, pittura a terra e la rimodulazione della mobilità interna di quello spazio. A Milano, fino a questo momento sono state create una trentina di piazze aperte, soprattutto nelle periferie, e ciò ha fatto sì che i quartieri abbiano oggi a disposizione nuovi spazi di incontro e socializzazione; l’aspetto interessante è che, non appena vengono apprezzate e vissute dai cittadini, le piazze entrano in maniera consolidata nella progettazione, ovvero diventano teatro di lavori urbanistici e sede di attrezzature permanenti. Peraltro, è anche interessante che per realizzare le piazze aperte vengano istituiti dei Patti di collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione pubblica: ovvero, sono gruppi di cittadini che indicano al Comune i luoghi da trasformare e sono gli stessi cittadini,che, sottoscritto un accordo specifico con il Comune, se ne prendono poi stabilmente cura.
Nel vostro lavoro, considerate quanto è già stato fatto in questa direzione in Europa, in grandi città come Parigi, Barcellona, Vienna. Ci raccontate di più?
Barcellona e Vienna, per esempio, sono interessanti perché hanno integrato il cosiddetto gender mainstreaming nella macchina amministrativa, ovvero hanno introdotto lo sguardo di genere nelle politiche pubbliche, ripensando in quest’ottica l’intera azione delle istituzioni a vantaggio di tutti. A Barcellona si è molto lavorato per cambiare il modo in cui la città è vissuta dalle persone organizzando gli spazi pubblici intorno alle superillas, ovvero isolati, pezzi di città dove le strade non sono pensate per le auto, ma per i pedoni, le biciclette, i passeggini e dove la frequentazione è estremamente eterogenea perché vi trovi donne, uomini, giovanissimi, bambini, anziani… A Vienna, attraverso una sessantina di progetti pilota è stata ripensata la città. Il quartiere semicentrale Maria Hilf è stato ridefinito nel profondo, proprio puntando a facilitare al massimo la vita quotidiana delle persone, a partire dalle donne, e la loro socialità. Lo si è fatto attraverso spazi pedonali e protetti, giardini, semafori intelligenti, panchine, giochi per bambini disseminati all’aperto…
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Siamo convinte che si debba lavorare sulla trasversalità strutturata nelle azioni amministrative: cioè, per ogni azione vanno valutate automaticamente, sempre, le ricadute su donne e uomini senza il bisogno di una sollecitazione. E siamo convinte che l’intersezione tra urbanistica e approccio di genere possa contribuire a riformulare le città. Perciò, fatta questa analisi di Milano, ora puntiamo a scendere di scala e a realizzare dei progetti pilota che, al pari di quanto è successo a Vienna, attuino trasformazioni concrete e reali del territorio.