Centri studi autorevolissimi non fanno che tornare sul punto: l’equità tra i generi non è solo eticamente giusta, è anche economicamente conveniente. Conviene alle economie, appunto, conviene alle aziende, conviene ai business, per i quali genera valore su ampia scala. Perché l’equità di genere, quando è davvero praticata, innesca cambiamenti di vasta portata: più donne occupate, più donne nei ruoli di leadership, più donne in settori economici fondamentali per la crescita generano in azienda quella diversità di visione e di approccio che oggi è considerata leva cruciale per affrontare, e vincere, le sfide della complessità che stiamo attraversando.
Più profitti e più resilienza
Le aziende che praticano in maniera sistemica l’inclusione fanno più profitti e sono più solide, migliorano il loro valore di mercato, la reputazione, le relazioni con i consumatori e gli stakeholders. Secondo la Consob, superata la soglia del 17-20% per cento di donne negli organi di controllo, la redditività aziendale cresce in modo significativo e, secondo il Diversity Brand Index 2022 le aziende più inclusive (non solo rispetto al genere) hanno un incremento dei ricavi che, nel lungo periodo, può superare il 23%. Per McKinsey Company, il differenziale di performance tra aziende più o meno inclusive può toccare il 48 per cento e per Boston Consulting Group le revenue generate dall’innovazione grazie alla Diversity (quella di genere sì, ma anche di provenienza geografica, di età etc) aumentano del 38 per cento. Ancora, secondo i rilevamenti l’ingresso di più donne nei CDA – grazie alle quote rosa delle Legge Golfo-Mosca – ha contribuito a modificare gli stessi board, riducendone l’età media, aumentando il livello di istruzione e diversificando il background professionale.
La situazione in Italia
Eppure gli ultimi dati sull’occupazione delle donne non rendono giustizia a tali primati: nel nostro Paese solo il 51,3% delle donne lavora – siamo ai livelli più bassi in Europa – e siamo ultimi per tasso di occupazione delle 25-34enni, praticamente la generazione più istruita del Paese. Linda Laura Sabbadini, direttrice generale dell’Istat, ha riportato sul quotidiano La Stampa gli ultimi dolenti dati sull’occupazione e nel rilevare un rallentamento della crescita dell’occupazione nel suo complesso ha scritto che «a dicembre, l’88% dell’incremento occupazionale annuo è stato maschile e a novembre il 76%. Un campanello d’allarme da non sottovalutare. D’altro canto», aggiunge, «i dati dell’ultimo anno evidenziano che il problema è serio perché, come sappiamo, la situazione dell’occupazione femminile nel nostro Paese non è affatto rosea. E chiude il suo editoriale scrivendo: «Non c’è futuro per il Paese senza i talenti femminili all’opera».
Quanto costa il gender gap
Il fatto che non si mettano in campo strategie politiche nazionali che rendano prioritario il tema dell’occupazione femminile e dell’equità di genere suona oggi ancor più incomprensibile e mortificante, per un Paese che – soprattutto considerate le opportunità per la crescita del PNRR – ne avrebbe moltissimo da guadagnare: è di questi giorni la notizia che nel nuovo testo degli appalti sarebbe stato addirittura cancellato quale requisito necessario o premiale il cosiddetto “bollino rosa”, che attesta che le aziende partecipanti ai bandi hanno adottato azioni al loro interno per raggiungere la parità di genere. Questo nonostante più studi certificano che un aumento di donne al lavoro ha un effetto moltiplicatore positivo anche sulla crescita dei Paesi.
Uno degli studi italiani più articolati viene da Open House Ambrosetti ed è stato condotto prendendo come perimetro i Paesi del G20 più la Spagna: ebbene, gli economisti di Ambrosetti stimano che abbattere il gender gap e, dunque, raggiungere lo stesso tasso di occupazione tra uomini e donne potrebbe generare un impatto economico annuale fino a 11,2 trilioni di dollari, valore che corrisponde al 14% del PIL. Raggiungere l’equità di genere e liberare il pieno potenziale delle donne non è oramai solo un tema di diritti, spiegano, ma un passo fondamentale verso lo sviluppo sostenibile, in termini di giustizia sociale, ma anche di crescita economica e competitività nazionale.
E il Ceo Valerio De Molli: «Le prove del nostro lavoro dimostrano ancora una volta che l’empowerment femminile è un fenomeno socio-economico complesso che richiede l’adozione di un approccio comune da parte di tutti gli attori della società. Crediamo che la sfera pubblica e quella privata debbano lavorare insieme verso questo obiettivo».