Geniale comunicatore prima ancora di essere un infallibile imprenditore, nel bene o nel male è stato tra i protagonisti indiscussi della nostra storia, rivoluzionando per sempre il modo di fare politica. E l’imprenditore
“Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”, diceva spesso, nei suoi spettacoli teatrali, il compianto Giorgio Gaber citando Gian Piero Alloisio e volendo sottolineare quanto quell’uomo, incredibilmente divisivo come poche altre creature politiche della Seconda Repubblica (e dalla longevità senza pari, anche spolverando gli attori della Prima), rappresentasse al meglio i pregi e i difetti degli italiani.
Populista prima dei populisti, ma anche cattolico, moderato, barricadiero quando si trattava di marciare sui tribunali e ovviamente presidente operaio. Volutamente gaffeur, un po’ come l’amico fraterno Mike Bongiorno (amicizia fortunata e di vecchia data, incrinata negli ultimi anni di vita del presentatore, quando Mediaset lo congedò senza preavviso), da cui probabilmente aveva preso i modi semplici e a tratti un po’ cafoncelli che però avevano contribuito a farlo entrare nelle case degli italiani. Berlusconi, geniale comunicatore prima ancora di essere un infallibile imprenditore, doveva aver studiato a lungo e con attenzione Mike Bongiorno, prima di entrare in politica. Probabilmente meglio di quanto fece Umberto Eco, senza lo snobismo di chi si riteneva a tutti i costi migliore. Berlusconi, del resto, voleva essere uguale a Mike. Perché come Mike doveva entrare in confidenza con la “casalinga di Voghera” che, mentre sbrigava le faccende in casa, seguiva La ruota della fortuna, si appassionava alle vicissitudini di Sentieri e quando andava a votare diffidava di chi usava i paroloni troppo difficili dell’intellighenzia di sinistra.
Silvio Berlusconi è morto con una cartella clinica più lunga solo dei processi cui, anche rocambolescamente, è scampato e che amava negli ultimi anni ricordare snocciolando numeri di udienze, cause, avvocati coinvolti. Numeri che di volta in volta cambiavano, diventando sempre più grossi, sempre più involontariamente comici. Imprenditore sì, fin nell’anima, forse proprio perché coi numeri sapeva fare magie, manovrandoli a piacimento e a proprio vantaggio. Come quel milione di posti di lavoro promesso e mai mantenuto, finito nella lunga lista di cose messe nero su bianco nei molteplici contratti stipulati con gli italiani, dalla rivoluzione liberale alla riforma dell’Irpef, passando per l’abolizione del bollo auto e poi, sempre per colpa di qualcuno (i comunisti, le toghe rosse, Umberto Bossi, Gianfranco Fini… il capro espiatorio variava con gli anni), mai mantenute.
Promesse da marinaio, le sue. Raccontate però col gusto del venditore porta a porta che doveva convincere la casalinga che aveva bisogno di quell’aspirapolvere che stava provando a piazzare: di più, riusciva a farle credere che non potesse più vivere senza. E quando, finalmente, aveva finito di parlare, ubriacando di parole l’ascoltatrice, probabilmente sarebbe pure riuscito a portarla fuori a cena. Perché sapeva esercitare sul prossimo un fascino incredibile, tanto sulle donne, sedotte dal suo savoir-faire un po’ meneghino, bauscia, à la Guido Nicheli, un po’ da chansonnier stile Charles Aznavour (del resto iniziò cantando sulle navi da crociera, accompagnato al piano da Fedele Confalonieri), quanto sugli uomini, intimoriti dal suo successo.
Solo negli ultimi anni, quelli del declino politico, dei bunga-bunga, il suo astro si è appannato. Il mai domo presidente aveva perso quell’allure che lo aveva contraddistinto per oltre una decade, apparendo come un uomo triste e solo, più in preda di ragazze spregiudicatissime che invitava alle sue cene “eleganti” che degli istinti. La caduta dell’uomo che si intreccia col fallimento (mancato) dello Stato, il tracollo morale che si lega all’impennata dello spread. Le manovre di Giorgio Napolitano (il secondo inquilino del Quirinale da cui il Cavaliere si sentirà tradito, dopo Oscar Luigi Scalfaro, autore di quel ribaltone che nel 1994 portò alla caduta del suo primo governo e alla nascita dell’esecutivo tecnico Dini) per soppiantarlo con Mario Monti, l’arrivo al Colle tra i fischi e le monetine in una fredda sera di novembre che appariva un misto tra la rievocazione della morte tra gli scandali della Prima Repubblica e scene da fine impero.
Il suo impero, mediatico. Potentissimo. Capace di azzerare gli avversari politici: Emilio Fede che da direttore del TG4 storpiava i nomi degli avversari politici ripresi nelle pose e nelle espressioni più inverosimili; il Giornale del fratello Paolo pronto a bastonare chiunque osasse mettersi sulla strada del premier. Si conierà persino un termine: “metodo Boffo”, dal nome appunto di una delle sue più illustri vittime, l’allora direttore dell’Avvenire. Mentre Mediaset irrideva con servizi giornalistici privi di contenuti i giudici che si ritrovavano Berlusconi alla sbarra: Canale 5 mandò un servizio sui calzini turchesi del magistrato Mesiano.
Silvio Berlusconi è morto e porta via con sé tutto questo ma anche molto di più: i successi del Milan, l’eterna querelle sul conflitto di interessi, l’acceso scontro tra politica e magistratura che ha impedito per vent’anni una seria riforma del sistema e del CSM, con le conseguenze ben visibili nelle cronache di questi giorni. Sarebbe impossibile sintetizzare in un solo ritratto l’uomo, l’imprenditore, il politico, il visionario. Ci provò, con scarsi risultati, il regista Paolo Sorrentino nel film Loro, ma nonostante la bravura di Toni Servillo, la maschera portata sulle scene era diversa dal mascherone di fondotinta di Sua Emittenza. Troppo pacchiana, troppo esagerata, troppo grottesca. Del resto, di Silvio Berlusconi ce ne è stato uno solo. Ed è meglio così. Ora, però, dovremo convivere con quello che è in noi.