Nata a Chicago, è stata la dipendente numero 5 di una biotech acquisita da Sanofi per 20 miliardi di dollari. Nel 2017 ha lanciato un fondo per sostenere le innovazioni nelle scienze della vita. Sesta puntata del nostro viaggio alla scoperta dei protagonisti del mondo VC
«Ci sono Claudia Pingue, Lucia Faccio, Paola Pozzi, Diana Saraceni, Barbara Castellano, Laura Ferro, Anna Amati, Francesca Natali». Sono le donne del Venture Capital che in Italia investe sulle startup biotech e delle scienze della vita. A elencarle è una di loro, collega nell’ecosistema dell’innovazione arrivata direttamente dagli Stati Uniti negli anni Ottanta. Elizabeth Robinson, nata a Chicago, è partner di Indaco Venture Partners Sgr ed è la protagonista della settima puntata del nostro viaggio alla scoperta degli attori del Venture Capital. Nel corso della nostra intervista è emerso un dato interessante: se è vero che i fondi VC registrano ancora una prevalenza maschile, nel biotech sembra che ci sia un maggior bilanciamento. «Nonostante questo, notiamo che è difficile per le imprenditrici farsi finanziare».
Employee numero 5
Come per Lucia Faccio di Sofinnova Partners, con Elizabeth Robinson partiamo da un passato accademico, da ricercatrice. Prima di entrare nel mondo startup, anche lei ha avuto modo di conoscere il settore. Da Chicago si è spostata sulla East Coast, al MIT di Boston. «Ero molto affascinata dall’ingegneria chimica. Erano i primi anni Ottanta». Prima il Phd, poi il post doc, fino a quando i suoi professori le hanno offerto l’opportunità di entrare in una startup. Employee numero 5. Quell’azienda, Genzyme, nel 2011 sarebbe stata acquisita da Sanofi per 20 miliardi di dollari. «In quel contesto ricordo che il mio progetto di Phd è diventato un’idea di business».
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A quel punto la strada era tracciata. «Ero troppo soddisfatta. Per me già era chiaro che non avrei voluto fare altro se non lavorare nelle biotech company». Il percorso di Elizabeth Robinson ha registrato poi una sterzata geografica non da poco. Dagli Stati Uniti, che già all’epoca continuavano a guadagnare terreno sull’innovazione rispetto ad altri contesti (Italia compresa), ha scelto di cambiare vita e di trasferirsi proprio nel nostro Paese. «Non è stata una scelta dettata per la carriera, ma per la famiglia». Anche da qui ha continuato a collaborare con Genzyme, per poi prendere parte al lancio di un altro progetto, NicOx SA, realtà quotatasi in Francia e specializzatasi nella cura del glaucoma. Nel frattempo Elizabeth Robinson, stabilitasi a Milano, osservava il contesto. «Non si trovava alcun VC in Italia. Per NicOx Ci hanno sostenuto i francesi di Sofinnova».
Il lancio di Indaco Venture
Negli anni Elizabeth Robinson si è però specializzata nel settore, fino a quando nel 2007 ha iniziato a fare angel investing, saltando dall’altra parte del tavolo, per capire quali fossero le soluzioni più innovative su cui puntare. «All’inizio erano consulenze per venture fund nell’ambito delle life science», ricorda. La strada che l’avrebbe poi condotta nel 2017 a lanciare insieme a Davide Turco, Antonella Bertrame e Alvise Bonivento Indaco Venture, un soggetto che ha tra i suoi verticali uno specifico legato al biotech. «Mi ha permesso di tornare a dedicarmi a un’area vicina al mio cuore».
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Una vita in un settore così complesso e ricco di sfide le hanno permesso di capire qual è la differenza tra il fare ricerca e il permettere ad altri di farla, finanziando progetti innovativi. «Un ricercatore ha una formazione result driven. Mi spiego: ogni risposta a una domanda che tu poni facendo un esperimento è un “good one”, perché ti dà un’informazione, che sia giusta o sbagliata». Le cose però cambiano quando la risposta deve essere mirata allo sviluppo di un prodotto e consegnata a un potenziale investitore. «A un certo punto dobbiamo fare il “killer experiment”: se il risultato non mi dà una conferma che cerco non possiamo procedere come fondo». Questo non significa che l’esperimento sia da buttare. «I ricercatori continuano. Non vuole dire che i risultati non sono validi».
Dove si fa ricerca
Uno dei trend più evidenti nel campo della ricerca in ambito farmaceutico è che le grandi aziende guardano con occhi molto attenti a quel che emerge dall’ecosistema startup. «Le Big Pharma non fanno più ricerca, con tutto rispetto. Sondano le biotech perché da parte loro sanno di avere forza sul manufacturing, sui clinical trial e sul market access. Il drug discovery puro viene ormai dalle startup».
Allo stato attuale sono due le startup innovative su cui il fondo Indaco ha fatto un investimento (Sibylla e Alia Therapeutics). Ma quali sono i settori di frontiera del biotech? «In America va molto di moda la longevity drug». Se vi interessa l’argomento vi suggeriamo di leggere la nostra intervista a Marco Quarta, Ceo di due startup della Silicon Valley. «Siamo molto selettivi – conclude Robinson -. Purtroppo, si possono incontrare progetti bellissimi con team però non sempre consapevoli delle complessità regolatorie e le relative approvazioni che precedono poi lo sviluppo di un prodotto. E, nel biotech, sono molto conservative».