Privacy settimanale | Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali, nel suo guest post per StartupItalia invita a riflettere su quanto sia democratica oggigiorno la Rete
Non c’è nessun dubbio che esiste una relazione significativa tra quello che leggiamo, guardiamo e ascoltiamo e il nostro modo di essere, di rapportarci al mondo e alle altre persone, di scegliere nella dimensione culturale, in quella politica e in quella commerciale. Chi decide la nostra dieta mediatica, quindi, in qualche modo incide sul nostro destino e se in pochi decidono la dieta mediatica di tanti, allora, pochi incidono sul destino dell’intera umanità. Ecco perché sono interessanti i risultati di una ricerca appena pubblicata dal Pew Research Center che, come già in passato, ha cercato di capire chi detta la dieta mediatica degli americani. Ovviamente i risultati non sono esportabili in Europa in maniera perfetta complici le differenze significative tra la storia dei media da questa e da quella parte dell’oceano e l’altrettanto rilevante differenza tra le abitudini di consumo ma, verosimilmente, in una società sempre più globalizzata e standardizzata come quella in cui viviamo, i trends sono analoghi. In questa prospettiva, il primo dato che balza agli occhi è che ci informiamo sempre di più attraverso smartphone, tablet e PC e sempre di meno attraverso i mezzi di comunicazione di massa tradizionalmente deputati a informarci.
La percentuale degli americani che non si informa mai o quasi mai attraverso televisione, radio e giornali, infatti, anche se lentamente è in aumento rispetto agli anni precedenti in misura direttamente proporzionale a quella in cui cresce la percentuale degli americani che si informano attraverso, appunto, i “nuovi” dispositivi digitali. E qui una prima considerazione è indispensabile perché, naturalmente, c’è una relazione significativa tra il dispositivo che usiamo per informarci e la nostra dieta mediatica anche perché le interfacce, le dinamiche di funzionamento e i modelli di business di questi dispositivi incidono significativamente sulle nostre scelte di consumo di notizie. Poco conta che, in teoria, attraverso uno smartphone, un ipad o un PC si possa, ormai, indifferentemente, guardare un programma televisivo, ascoltare la radio o leggere un giornale, il punto è che farlo può risultare meno immediato, facile, pratico che informarsi in maniera diversa. E chi decide come funzionano i nuovi dispositivi digitali attraverso i quali ci informiamo, quindi, ha oggi uno straordinario potere nell’incidere sulla nostra dieta mediatica. Diventa, quindi, importante considerare che i dispositivi dei quali parliamo sono per la stragrande maggioranza progettati e prodotti da un numero di società che, verosimilmente, si può contare con le dita di una sola mano. C’è, però, in questo senso un dato confortante – o parzialmente confortante – che emerge dalla stessa ricerca: la percentuale di utenti dei dispositivi digitali che continua a informarsi attraverso siti o app “specializzate” nell’informazione è stabile. Certo quali di queste app e siti di informazione vengano effettivamente scelti e quanto pesino i Signori dell’industria dei dispositivi in questa scelta, la ricerca non lo dice, ma è un dato non secondario. Ma se le app e i siti di informazione non perdono terreno, la ricerca suggerisce che i motori di ricerca, i social media e i podcast ne conquistano a passo veloce.
Senza nessuna sorpresa le percentuali di americani che per informarsi utilizzano spesso o almeno qualche volta motori di ricerca, social media e podcast è di diversi punti superiore rispetto a quella che lo faceva appena tre anni fa. E una volta entrati nel mondo dei social media, Facebook stacca in maniera significativa tutti gli altri, seguito da YouTube e, a debita distanza (con una percentuale pari a circa la metà) da Instagram – parte dello stesso Gruppo Meta – e da Tik Tok, con X, fu Twitter, che segue a debita distanza (quasi un terzo rispetto Facebook). Anche qui vale la pena notare che il numero dei social media con una percentuale degna di nota nella dieta mediatica degli americani si conta nelle dita di due mani e che, quindi, probabilmente, da questa parte dell’oceano, dove il successo dei social media è ancora più polarizzato verso tre o quattro piattaforme di riferimento, potrebbero bastare le dita di una sola mano. Tra i social media, se Facebook è il più usato Tik Tok è quello che, in un solo anno, è cresciuto di più come canale di accesso all’informazione da parte dei propri utenti: sono quasi il doppio dello scorso anno quelli che lo usano a questo scopo. Sono loro, i soliti noti del firmamento digitale a decidere, che ci piaccia o non ci piaccia, la nostra dieta mediatica e lo fanno regalandoci l’illusione di essere noi saldamente al comando, di essere noi a scegliere cosa leggiamo, guardiamo e ascoltiamo. Ma non è così e lo sarà sempre di meno perché gli algoritmi dei nuovi intermediari dell’informazione ci conoscono sempre meglio e sanno sempre di più “come prenderci”, ovvero come, quando e dove proporci questo o quel contenuto in modo tale che noi non si sia in grado di resistere. In fondo Digital Service Act e Digital Market Act – le punte di diamante del nuovo pacchetto regolamentare europeo – dovrebbero servire anche a questo, a richiamare all’ordine lo strapotere informativo digitale delle big tech. Ma riusciranno nell’impresa? Dobbiamo augurarcelo perché altrimenti un numero di soggetti sempre più ridotto deciderà il destino di un numero di persone sempre maggiore, perché sempre maggiore sarà il numero delle persone connesse che avrà accesso all’informazione attraverso i loro servizi e piattaforme.
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