Il Dipartimento della Difesa aggiunge il nome dell’azienda cinese a una lista nera. Cosa succede ora?
Mancano pochi giorni alla fine del suo mandato, ma Donald Trump non vuole lasciar nulla di intentato: la notizia lanciata nella serata di ieri da Reuters è senz’altro destinata a far discutere, anche se probabilmente a Xiaomi non toccherà la stessa sorte toccata a Huawei. Ciò che è successo è che il Dipartimento della Difesa ha aggiunto Xiaomi stessa a una lista di una decine di aziende ritenute troppo vicine all’Esercito di Pechino: parliamo quindi di un potenziale rischio per la sicurezza degli USA, ma in termini diversi da quanto successo nella vicenda di Huawei. Con conseguenze, vedremo, diverse.
La lista nera delle “Communist Chinese military companies”
La sezione 1237 del National Defense Authorization Act (NDAA) del 1999 ha dato vita a una vera e propria blacklist: serve a tenere traccia di quelle che gli Stati Uniti ritengono aziende a tutti gli effetti colluse o addirittura integrali all’Esercito della Repubblica Popolare, e che pur restando aziende private riceverebbero finanziamenti e supporto per accedere a tecnologie avanzate e ricerche innovative che poi tornerebbero utili ai militari. Si tratta di una lista che fin qui per oltre 20 anni non ha avuto particolare importanza a efficacia, ma tutto è cambiato quando Trump ha imposto una nuova regola: tramite un ordine esecutivo ha deciso che capitali USA non possono essere investiti in queste aziende, e questo complica la vita a chi ci finisce dentro.
Nel caso di Xiaomi, vista l’iscrizione avvenuta ieri si verificheranno una serie di conseguenze: la più significativa delle quali è l’obbligo per tutti i cittadini USA di cancellare i propri investimenti entro il prossimo novembre. Di fatto per Xiaomi e per tutte le altre aziende iscritte in questa blacklist non sarà più accessibile la Borsa di Wall Street, né sarà possibile rastrellare capitali privati in qualsiasi altra forma: nulla accadrà per quanto attiene la possibilità di vendere e acquistare componenti e tecnologia negli Stati Uniti o con aziende statunitensi, quindi grattacapi finanziari a parte per Xiaomi non cambierà granché nella vita di tutti i giorni.
Nel frattempo la reazione di Xiaomi è arrivata, ma la cinese prende tempo: “Come azienda rispettiamo sempre le leggi e operiamo in accordo con le leggi e i regolamenti delle giurisdizioni dove facciamo affari. L’azienda ribadisce che fornisce prodotti e servizi destinati a usi civili e commerciali. L’azienda ribadisce che non è di proprietà, controllata o affiliata all’Esercito cinese, né ricade nella definizione di “Azienda Comunista Militare Cinese” come definito dalla NDAA. L’azienda prenderà le appropriate iniziative per proteggere l’interesse dell’azienda stessa e dei suoi azionisti”. Il comunicato si conclude promettendo altri annunci più avanti, non appena sarà compresa appieno la portata di questa novità.
Una guerra “commerciale”
Le guerre del 21simo secolo non si combattono più solo con le armi: dazi e blacklist sono un ottimo metodo per colpire il portafogli dei propri nemici, provocando danni e conseguenze del tutto analoghe a quelle di un conflitto armato. Quella scoppiata tra Cina e Stati Uniti è a tutti gli effetti una guerra, “commerciale” ma sempre di guerra si tratta: Trump aveva riposto molte delle proprie speranze rispetto alla sua politica estera in questo braccio di ferro, colpendo la più famosa azienda di Pechino e facendone un esempio per tutte le altre. Huawei è stata messa fuori gioco nel settore degli smartphone, ormai dopo due anni è diventato davvero difficile lottare ad armi pari con i suoi concorrenti, ed è stata messa in difficoltà anche nel campo delle infrastrutture: TikTok, WeChat, Tencent e ora Xiaomi sono altri bersagli tecnologici che la Casa Bianca ha deciso di colpire.
Va detto, e sono dati recentissimi, che la strategia di Trump non sembra aver avuto molto successo tranne che per quanto attiene Huawei: i numeri dell’export cinese, nonostante la pandemia, sono in crescita – niente affatto penalizzati dalla politica trumpiana. Una delle aziende che ha fatto segnare la crescita più sostanziosa è stata per l’appunto Xiaomi: che ha finito per colmare il vuoto lasciato da Huawei sul mercato, ha iniziato a scalare le classifiche di vendita e secondo alcuni analisti ha finito anche per superare Apple. Poi c’è la questione introiti: con un catalogo amplissimo, Xiaomi si è anche impegnata a lanciare prodotti di fascia alta (quelli più remunerativi) per far crescere anche il fatturato oltre alle vendite.
Con l’uscita di scena di Trump, non è chiaro quale politica estera intenderà perseguire il prossimo presidente Joe Biden: che ha anticipato di non essere esattamente filo-cinese e di aver tutta l’intenzione di continuare il confronto serrato con Pechino (pur perseguendo una “strategia più coerente”). A luglio scadrà l’attuale ordine esecutivo che ha congelato definitivamente il business consumer di Huawei, l’uscita dei capitali a stelle&strisce da Xiaomi dovrebbe avvenire entro novembre: difficile che questa sia la priorità di Biden per i suoi primi 100 giorni dall’insediamento, dunque dovremo aspettare qualche mese per capire meglio cosa accadrà.