Due sviluppatori che hanno lavorato a blockbuster come Battlefield, Midnight Club e Max Payne fondano la propria realtà per creare un videogioco di corse arcade. La nostra recensione
Nel mare magnum delle produzioni indipendenti c’è un titolo che potrebbe rischiare di passare sotto traccia ma che merita invece di essere provato. Si chiama Hotshot Racing e vanta una storia niente male. Non solo, infatti, affonda le proprie radici in un altro videogioco, Racing Apex, in sviluppo da circa 10 anni e poi convertito in questo che stiamo recensendo oggi, ma anche e soprattutto per via del fatto che è stato messo a punto da due sviluppatori dal pedigree di tutto rispetto che hanno maturato esperienza negli studi più grandi e rinomati e poi deciso di mettersi in proprio e fondare la propria startup: Lucky Mountain Games. Se il nome non vi dice niente è tutto a posto: Racing Apex / Hotshot Racing è il loro primo videogioco.
Sotto la neonata etichetta britannica si nascondono artisti coi controfiocchi: Trevor Ley (Ceo della startup) e John Humphries. Vantano trascorsi in Rockstar (la casa di GTA, mica pizza e fichi), Sony ed Electronic Art (che i più conoscono per Fifa) e hanno contribuito allo sviluppo di titoli come Harry Potter, Battlefield, Burnout, Midnight Club e Max Payne. Presi sotto l’ala del produttore Curve Digital e affiancati da Sumo Digital Ltd,
i ragazzi di Lucky Mountain Games hanno potuto finalmente sbloccare e terminare i lavori su Racing Apex (cui hanno lavorato, pare, appena 10 persone: Trevor Ley e John Humphries come 3D Artist/Design, Jason Heine e Waterflame alle musiche, Robin Butler alle animazioni, Ben Stevens per il Character Design, con il contributo di due programmatori, Javier Carrion e Mark Ripley e Patrick Seymour e Kira Buckland al leggio come doppiatori) ora ribattezzato Hotshot Racing.
Tranquilli, la macchina della polizia non è lì per farvi la multa. È solo una delle tante auto disponibili
Hotshot Racing è una vera e propria lettera d’amore indirizzata a quei cabinati plasticosi, oggi polverosi, che hanno allevato schiere di videogiocatori. Se c’è qualcuno, tra voi, che ha più di 25 anni probabilmente ricorderà le vecchie, fumosissime, sale giochi e magari avrà passato interi pomeriggi spendendo monetine da 500 o 200 lire (a seconda dell’età pure da 100…) consumandosi i polpastrelli con i coin-op, i coin operated. Lacrimuccia? Se la ruota dei ricordi ha iniziato a girare vorticosamente siete in bona compagnia. Giocando a Hotshot Racing probabilmente frignerete assai visto che il titolo britannico non fa mistero di ispirarsi a classici del calibro di Hard Drivin’, Daytona USA, Virtua Racing, Sega Rally e Stunt Racer FX di Nintendo.
Parliamo di videogiochi che debuttarono agli albori della grafica 3D e che presentavano perciò poligoni molto semplici, quasi sempre senza texture. Erano opere così grezze che spesso ci voleva una buona dose di fantasia per distinguere una casa da una mucca. Ma per chi ha vissuto quel periodo, quei giochi sono straripanti di magia. Chi non lo ha vissuto potrebbe comunque trovarli affascinanti: è comunque un pezzo di storia videoludica importante che Hotshot Racing rispolvera e recupera dagli annali a uso e consumo dei videogiocatori del 2020, sicura di solleticare soprattutto quelli che, oggi con qualche capello in meno e diversi chili in più, hanno passato buona parte della propria infanzia nelle sale giochi.
Hotshot Racing propone persino una visuale da cruscotto, che ancora oggi molti titoli moderni non hanno. E alcune finezze: il pilota inglese ha il vol…
In Hotshot Racing ritroviamo inalterato il gameplay dei racing game arcade anni ’90, a iniziare da un aspetto che personalmente avevo dimenticato: la presenza dei checkpoint in pista. I coin op erano infatti studiati per spillare più soldi possibili, quindi se si impiegava troppo per coprire una porzione di pista si incappava automaticamente nel game over.
Non si giocava dunque solo contro la CPU ma pure contro il tempo. E Hotshot Racing recupera questa antica usanza ormai roba da museo. Come recupera un altro topos videoludico di quegli anni: il roster dei piloti rappresentava sempre varie nazionalità: c’era dunque l’inglese, l’americano, il giapponese e ciascuno era caratterizzato da tratti somatici buffi e stereotipati che già a colpo d’occhio permettevano di intuirne la provenienza (chissà, magari è una abitudine che si è persa per via del politicamente corretto…).
Per il resto, Hotshot Racing propone otto piloti che correranno in 16 circuiti a loro volta provenienti dai quattro angoli del globo. Si va così a gareggiare lungo spiagge dorate derapando in giungle intricate, senza dimenticare paesaggi alpini, le immancabili metropoli moderne e antichi castelli medievali. Diverse le modalità di gioco: Sfida a Tempo e Grand Prix sono dedicate a chi vuole competere nei formati classici, contro se stesso o contro gli avversari, prendendo parte ai campionati di 4 tracciati ciascuno, mentre Guardie e Ladri e Corri o Esplodi offrono simpatiche varianti del rimpiattino. Nonostante si rifaccia ai vecchi cabinati, Hotshot Racing prevede la possibilità di disputare gare a 4 giocatori a schermo condiviso e 8 giocatori online.
Un tempo tutti i videogiochi da coin op prevedevano personaggi in rappresentanza dei singoli Stati
Stupisce il fatto che Hotshot Racing possa essere tanto fresco nonostante si rifaccia a una tipologia di giochi che si è estinta quando hanno chiuso le sale giochi. L’esperienza e la bravura di Trevor Ley e John Humphries si vede in filigrana: abbiamo per le mani infatti un titolo solido, divertente, a modo suo anche sofisticato. Non è sempre perfetto: la grafica, fin troppo semplicistica soprattutto nell’uso dei colori, a volte non permette di distinguere tra tracciato e guardrail, soprattutto quando sono del medesimo colore, col risultato che si finisce a sbattere più per colpa del gioco che del giocatore. E la situazione peggiora usando le visuali da cofano o da cruscotto, che chiudono maggiormente il campo visivo.
Ok essere fedeli ai tempi che furono, ma si sarebbe potuto facilmente ovviare a questo inconveniente ricorrendo a una palette cromatica differenziata. Un altro aspetto che ci ha affaticato la vista riguarda la realizzazione della visuale interna: molto carina, ma tende a ballare troppo, regalando più l’impressione che a muoversi non sia la testa del pilota, ma l’intero cruscotto come una barca che sta affrontando una tempesta e dopo un po’ infatti si potrebbe avvertire persino un po’ di mal di mare.
Ah, quando le auto sollevavano triangoli di fango… Bei tempi!
Sbavature a parte, siamo comunque al cospetto di un racing game simpaticissimo. Soprattutto su Nintendo Switch dato che va a colmare una lacuna classica di tutte le console della Casa di Kyoto, storicamente prive di titoli di corse automobilistiche di rilievo. Un gioco fresco, colorato e divertente, soprattutto in compagnia, ma anche pieno di significato per tutti coloro che sono nati a pane e coin-op, ideale per partite mordi e fuggi e, proprio per questo, calzante con la natura portatile della console giapponese. Ci ha messo 10 anni, ma alla fine il vecchio Racing Apex è uscito dall’officina e… ha una carrozzeria da urlo.