Dal lavoro in mobilità all’analisi dei dati per la previsione delle competenze, fino alla diversificazione sotto ogni punto di vista e al ribaltamento nella gestione dei talenti: cosa fa davvero un’azienda resiliente
Qualche giorno fa il World Economic Forum ha rilasciato nel corso del supersummit di Davos una corposa indagine nella quale tratteggia il profilo dei lavori del futuro. E di conseguenza, cornice un po’ meno battuta dai media perché più faticosa da scavare, del mercato del lavoro nel suo insieme.
Si tratta di un pachidermico sondaggio realizzato interpellando i grandi “datori di lavoro” internazionali, chiamiamoli così. In particolare, a disegnare il perimetro – o meglio, a raccontare quale sia al momento la situazione, è poi il Wef che pensa alle raccomandazioni – sono stati responsabili della strategia e delle risorse umane di moltissime grandi aziende e multinazionali. Più nel dettaglio, delle 100 principali aziende nei vari settori industriali, dall’energia ai trasporti passando per i servizi finanziari, integrate da una cinquantina di società nazionali in alcuni Paesi-chiave. Alla fine sono stati sentiti i top manager di oltre 2.400 realtà. A proposito: si tratta di quel medesimo studio che, secondo molte testate, avrebbe accreditato entro il 2020 la perdita di 5 milioni di posti di lavoro a causa della tecnologia. Non è esattamente quella, la storia. Ma è un altro capitolo.
La cosa più importante sono le competenze
Di solito quando si parla di mercato del lavoro si tende sempre, specialmente nel panorama editoriale italiano, a concentrarsi sui lavori più o meno in crescita o più o meno a rischio e così via. Anzitutto senza badare troppo al bagaglio che sarebbe giusto cucirsi in certi momenti. Ma commettendo anche un errore di prospettiva: come se l’agorà dell’offerta e della domanda di impiego in un qualsiasi contesto poggiasse più su chi quel lavoro lo offre che su chi lo domanda. Cioè le imprese.
E, in particolare, il modo specifico in cui quel lavoro viene domandato. In altre parole, le strategie attraverso le quali un’organizzazione articola la sua forza lavoro. D’altronde il 37% dei manager intervistati ritiene che uno dei principali ostacoli allo sviluppo tocchi proprio la workforce, in particolare quando non sia allineata alle strategie per l’innovazione.
Che significa? Una banalità, ma se per molti alti papaveri è ancora un problema significa che non è proprio una cretinata: se vuoi fare un certo business, specialmente seguendo e tentando di anticipare le prossime tendenze innovative sotto ogni profilo (catena produttiva, bene o servizio) devi avere i dipendenti e i collaboratori giusti. Altrimenti perdi il treno. Anzi, neanche lo vedi passare.
Il futuro di un’azienda è nel avere dipendenti che capiscano il proprio lavoro
E non sempre è facile
Cosa bisognerebbe fare, dunque, per affrontare il futuro – che sia disruptive o meno – con la giusta forza lavoro? Organizzarla con una serie di ribaltamenti che da una parte siano estremamente allineati a quel che sta accadendo nelle tecnologie e dall’altra consentano di far crescere il peso specifico dei propri dipendenti. Il rapporto ne indica anzitutto una decina che le aziende dicono già di aver messo in campo. Poi individua quattro aree d’intervento prioritarie che certo raggruppano queste dieci strategie ma spingendone di molto l’importanza e rimescolandone la priorità.
Formazione, mobilità, rotazione di ruoli, talenti femminili
Al vertice delle tattiche che Cso o dai Chro stanno mettendo in campo c’è per esempio la lezione più vecchia del mondo: investire in formazione. Lo sostiene il 65% degli intervistati. Alla seconda piazza, col 39%, spunta il supporto alla mobilità, intesa come quel famoso lavoro agile che fa parte dell’ultimo ddl sugli impieghi autonomi collegato alla legge di Stabilità nostrana, e alla rotazione di ruoli, uffici, mansioni fra dipendenti e collaboratori. Terzo gradino, col 25%, per la collaborazione con istituzioni educative, dalle università ai centri di ricerca. Seguono l’individuazione di nuovi talenti femminili, dunque il (tristemente) famoso gender gap, l’attrazione di talenti stranieri, il ricorso ai tirocini, la collaborazione con altre industrie anche di ambiti diversi, le cosiddette “minoranze” (formula sgradevole oltre che fuori luogo, ma tant’è) e gli impieghi a tempo determinato.
Le aziende non possono più adagiarsi nel ruolo di passive consumatrici di capitale umano pronto all’uso
I quattro fronti da aprire
Secondo il World Economic Forum, “le aziende non possono più adagiarsi nel ruolo di passive consumatrici di capitale umano pronto all’uso. Devono cambiare mente per scovare i talenti di cui hanno bisogno ottimizzandone le ricadute sociali. Questo prevede diversi cambiamenti nel modo in cui l’organizzazione vede e gestisce le sue risorse, sia nel breve che nel lungo periodo“. La resilienza aziendale, la capacità cioè di rialzarsi se e quando l’impatto di innovazioni inaspettate o impreviste dovesse produrre degli shock, dipende dunque da quattro fronti. Lezioni in fondo utili anche alle startup di oggi, che se vogliono garantirsi
- Reinventare la funzione delle risorse umane. Bisogna cioè saper gestire e individuare, all’interno di un panorama di caratteristiche individuali in completo mutamento, proprio quelle che servono. Non altre. Neanche simili. “Il talento non è un elemento eterno, da valutare una volta nel passato o da colmare rimpiazzando semplicemente le persone” si legge. Al contrario, dal momento che il tasso di trasformazione delle qualità sta accelerando sia nei vecchi che nei nuovi ruoli, occorre una strategia chiara di costruzione di queste competenze e di gestione dei talenti. Il responsabile delle risorse umane con nuovi strumenti analitici per indicare le necessità che consentano di cavalcare o anticipare le tendenze.
- Usare i dati. Usare i dati. E ancora usare i dati. La pianificazione della forza lavoro e della gestione del talento e delle risorse dovrà vedere al centro previsioni precise di analisi dei dati, con metriche ben stabilite. La mappatura di categorie lavorative emergenti realizzata per tempo, ridondanze scovate in anticipo o cambiamenti di competenze richiesti in funzione della mutazione del contesto sono tutti obiettivi raggiungibili in questo modo. Insomma, chi si occupa di risorse umane dev’essere un po’ lo stregone del domani, non il ragioniere dell’oggi, immaginando chi servirà e quali saranno le qualità vincenti per il business in una certa fase. Che magari non è neanche iniziata.
- La diversità è una ricchezza. Moltissimi studi dimostrano ormai senza troppi dubbi i benefici di una forza lavoro diversificata: per sesso, età, origini, orientamento sessuale, poco importa. La percezione deve cambiare e “non ci sono più scuse” scrive il Wef. Anche in quest’area l’analisi dei dati può rivelarsi un utile strumento di promozione della parità nella forza lavoro. Un tema molto distante dalle vetuste corde italiche ma che negli Stati Uniti, in varie salse e perfino per varie vicende di cronaca, è considerato fondamentale.
Il lavoro è ciò che le persone fanno, non dove lo fanno
- Sfruttare l’elasticità lavorativa e le piattaforme online. I confini fra l’universo concreto di un’azienda e il suo aspetto organizzativo sono sempre più sfumati. Ecco perché bisognerà anche in questo caso fare un salto di qualità: “Il lavoro è ciò che le persone fanno, non dove lo fanno” scrive il rapporto. Le organizzazioni continueranno per esempio a connettersi e rivolgersi anche a freelance che lavorano in autonomia o professionisti indipendenti tramite piattaforme digitali di ogni tipo. Anche il mercato prima o poi seguirà, con nuove tutele per queste figure e nuove associazioni di categoria. In questo senso l’invito del documento è più ai politici che agli imprenditori: occorreranno sempre di più garanzie portabili da collaborazione a collaborazione e una legislazione coerente anche per mansioni diverse.