L’Authority Antitrust italiana decide di sanzionare i due marchi. A causa degli aggiornamenti per gli smartphone e delle conseguenze sulle prestazioni
Come una bomba a orologeria, pronta a scoppiare presto o tardi nei prodotti che acquistiamo: questa è l’obsolescenza programmata, ovvero la vera o presunta pratica delle aziende di confezionare prodotti “a scadenza”. Lavatrici e automobili che si rompono un giorno dopo la fine della garanzia, o almeno che danno questa impressione: ora c’è una conferma ufficiale a quella che fino a oggi è stata una sorta di leggenda metropolitana, dopo che l’AGCM ha sanzionato Samsung ed Apple per le pratiche adottate nell’aggiornamento dei loro smartphone.
L’istruttoria AGCM
Partiamo dai fatti. L’Antitrust italiana aveva avviato ormai molto tempo fa un’istruttoria per valutare il comportamento di Apple e Samsung in occasione degli aggiornamenti dei loro smartphone: in particolare nell’indagine sono rientrati i modelli iPhone 6 e 6s per quanto attiene Cupertino, e Note 4 per quanto riguarda Seoul. Parliamo di un periodo compreso tra 2014 e 2016. Stando a quanto riportato da AGCM, le due aziende avrebbero proposto agli utenti di aggiornare questi terminali a una nuova versione del sistema operativo (iOS 10 per Apple, Android Marshmallow per Samsung) senza adeguata informazione sulle possibili conseguenze: nei fatti, un decadimento delle prestazioni tale da pregiudicare il corretto funzionamento dei terminali stessi.
AGCM va anche oltre. Secondo l’Authority Samsung avrebbe addirittura fatto pagare ai suoi utenti gli interventi di manutenzione sui terminali “vittima” dell’upgrade, mentre Apple avrebbe cercato di tamponare la questione rilasciando un aggiornamento successivo (iOS 10.2.1) che tuttavia modificava le performance degli smartphone. Il risultato è stata una sanzione per entrambe le aziende: doppia per Apple, che avrebbe compiuto anche una seconda violazione per non aver informato debitamente i clienti sulla vita media e presunta delle batteria a litio installate negli iPhone.
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In altre parole, sia Apple che Samsung avrebbero rilasciato per terminali già in commercio degli aggiornamenti concepiti e ottimizzati per il modello successivo (iPhone 7 e Note 7): la conseguenza più evidente, in entrambi i casi, è stata il decadimento delle prestazioni che causava blocchi, rallentamenti, riavvii. La mancata comunicazione sulle performance post-aggiornamento, oltre alla impossibilità di tornare indietro una volta aggiornato, ha fatto il resto.
Il risultato è una multa pari al massimo di quanto previsto dal nostro ordinamento: 5 milioni a testa per l’aggiornamento pernicioso degli smartphone, e altri 5 milioni ad Apple per la vicenda batterie. A poco è servito, per mitigare la decisione del Garante, la decisione di Apple di avviare un programma di sostituzione delle batterie degli iPhone a prezzo calmierato. Totale, 15 milioni: un precedente non da poco.
Ma è davvero obsolescenza programmata?
Partiamo da un presupposto, indispensabile: l’evoluzione che stanno vivendo gli smartphone, in questi anni, è senza precedenti. Solo pochi anni fa le fotocamere e le batterie, o gli schermi, non avevano le prestazioni che hanno oggi: non parliamo poi di quanto è sotto il cofano, i processori e altri elementi di calcolo che gestiscono l’intelligenza artificiale, che erano autentica fantascienza solo 4 o 5 anni fa. Va da sé che il software che anima questi device, e che mette a disposizione a ogni generazione funzioni sempre più avanzate, deve evolversi di pari passo.
Per questo motivo, e per ragioni economiche, non sempre è possibile garantire una retrocompatibilità totale del nuovo col vecchio: se il nuovo modello ha due, tre, o quattro fotocamere e il vecchio no, non si può certo garantire che le foto vengano uguali su entrambi. Senza contare che si evolvono anche i software: oggi i telefoni incorporano tecnologie di archiviazione che lavorano con un file system diverso dal passato – e passare dal vecchio file system al nuovo non è semplice, o addirittura può essere impossibile. Quindi spesso, troppo spesso, le nuove versioni del software sono compatibili col vecchio hardware ma non ottimizzate: questione di tempo da dedicarvi per ottimizzare, che equivale a un costo che può non essere previsto nel budget per lo sviluppo della nuova versione. Va detto che ci sono delle eccezioni: di fatto Apple si è impegnata in questo senso con iOS 12, proprio per garantire un’esperienza d’uso ottimale agli utenti che possiedono smartphone delle generazioni precedenti.
Alla luce di tutto questo, e ovviamente anche per ragioni di modello di business, gli smartphone hanno una vita utile prevista di un paio d’anni al massimo: difficile che si vada oltre quel limite per ciò che riguarda aggiornamenti garantiti (che sono anche più complicati su Android, dove tirano in ballo decine di marchi e pure gli operatori telefonici), giusto quanto basta per coprire la garanzia e poco più. Anche per quanto attiene la vita utile dei componenti: chip, memorie, schermi, vanno tutti incontro a usura e dunque li si progetta e costruisce in modo tale che garantiscano una durata media accettabile a un costo ragionevole. Non è impossibile creare un processore o una memoria che durino 10 anni, ma avrebbero un costo di gran lunga superiore.
Tanto più che, dopo un paio d’anni, le carte in tavola saranno talmente cambiate da rendere quello di oggi uno smartphone preistorico. Pensate a un terminale Samsung, o Apple, di due anni fa: sembra passata una vita, basti dire che oggi gli smartphone di punta navigano su rete LTE fino a 1Gbit di velocità mentre nel 2015-2016 raggiungevano al massimo 300 megabit. Parliamo di un aumento del 300%, e nei nuovi Mate 20 Pro di Huawei si arriva addirittura fino a 1,4Gbit. O le fotocamere. Oggi ce ne sono da 40 megapixel doppie o triple, selfie-cam da 20 megapixel o più: solo pochi anni fa se si arrivava a 8 megapixel era un record.
Le conseguenze della decisione AGCM
Senza dubbio la questione qui è doppia: da un lato c’è il problema dell’e-waste, di questa continua rincorsa all’ultimo modello che moltiplica gli smartphone lanciati ogni anno e che ci convince (o costringe) a cambiare telefono. Ci sono addirittura programmi di operatori e aziende che prevedono il ricambio automatico ogni 12 mesi, a fronte di una tariffa fissa mensile. E i vecchi che fine fanno? Nella migliore delle ipotesi verranno avviati per il riciclo, nella peggiore verranno cestinati e finiranno per inquinare (l’elettronica contiene anche sostanze pericolose).
Dall’altro c’è la sostenibilità di questo mercato: oggi tutto questo circo si regge sul ricambio del terminale ogni 12-18-24 mesi. Se un terminale è talmente efficiente da non necessitare alcun ricambio, se l’utente è soddisfatto e non sente il bisogno di cambiare, si rischia la stagnazione: è quanto già accade oggi nel mercato dei PC. E la stagnazione rallenta l’evoluzione: la concorrenza per accaparrarsi il mercato spinge a proporre sempre di più ai potenziali clienti. Se rallenta la domanda, rallentano anche gli investimenti in ricerca&sviluppo.
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Detto questo, va trovato un equilibrio tra le esigenze dei consumatori e quelle dell’industria. In Francia hanno deciso addirittura di intervenire con una legge, da noi questa sentenza è un primo passo. Vedremo come si evolverà la questione, soprattutto se altri Paesi seguiranno su questa strada. Per ora da segnalare la presa di posizione ufficiale di Samsung sul tema: “Per Samsung la soddisfazione dei propri clienti è obiettivo primario, strettamente legato al proprio business. Samsung non condivide la decisione presa dall’AGCM in quanto la società non ha mai rilasciato aggiornamenti software con l’obiettivo di ridurre le performance del Galaxy Note 4. Al contrario, Samsung ha sempre rilasciato aggiornamenti software che consentissero ai propri utenti di avere la migliore esperienza possibile. L’azienda si vede quindi costretta a ricorrere in appello contro la decisione presa dall’Autorità”.