Intervista al founding member di Level 39, l’acceleratore fintech londinese che racconta cosa potrà cambiare per chi dall’Italia vorrà fare startup a Londra: «una questione di mentalità»
Stefano Tresca, 43 anni, è founding member di Level 39, acceleratore di startup fintech e smartcity nel cuore di Londra. In questi anni ha visto, valutato, conosciuto oltre 60 startup italiane. In Inghilterra è stato invitato sia in Parlamento che a 10 Downing Street – la residenza del Primo Ministro – ed ha partecipato alla stesura delle ultime riforme sull’immigrazione. Ha studiato giurisprudenza e economia. Ha lavorato nello startup di Wind «matricola numero 8». In Asia dal 2006 al 2009 come «nomade digitale», dove ha aiutato aziende Cinesi, Indiane e del Sud Est Asiatico ad entrare in Europa. Ha vissuto in 23 paesi, 54 ne ha visitati. Dal suo primo trasferimento, a New York, dove lavorava nelle mense per i college. Conosce bene la City. Conosce bene l’ecosistema che si è creato a Canary Wharf, l’isola della finanza dove si occupa di fare incontrare le sue startup con l’alta finanza londinese. Quella che davvero interessa a Londra. E non è affatto spaventato dal voto del 23 giugno che ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. «Cambierà pochissimo per il settore del tech. Quasi nulla. Ma qualcosa cambierà» avverte, «per le startup italiane e per gli italiani che vanno a cerare lavoro a londra».
Cosa ti rende così sicuro che non cambierà nulla nel tech?
«Un dato su tutti. Nel 2015 il PIL prodotto dalla tecnologia ha superato la manifattura, e si sta avvicinando alla superare i servizi finanziari. Il prodotto interno lordo UK oggi viene dal 9% dal manifatturiero, l’11% dalla tecnologia e il 14% di servizi finanziari, ma la tecnologia cresce 4 volte più velocemente degli altri settori. Londra avrà sempre più bisogno di talenti».
Difficile che non cambi proprio nulla.
«La mia impressione, ripeto, è che cambierà molto poco sul lato della finanza, delle imprese, dei commerci tra paesi. Nessuno vorrà dazi e queste cose non le decide solo la politica ma anche le aziende. Certo, a livello politico l’UK non voterà più a Bruxelles. Ma ci sono aziende che fanno affari con Londra, e aziende inglesi che fanno affari in Europa. Mettere dazi o protezioni non fa bene a nessuno. Le ripercussioni però ci saranno a livello politico. L’Ue sarà più piccola, la Russia più forte».
Da dove arriva oggi chi lavora nel tech inglese?
«Da ogni parte del mondo. E’ immigrazione di qualità e lavorano tutti. Molti vengono da fuori dei confini europei e questo per loro non è certo un freno per lavorare. Qui è pieno di ingegneri russi, ucraini. A Level39 abbiamo founder cinesi, startup di Singapore, di Honk Hong. Sono qui e nessuno li caccia. Se le grandi aziende hanno bisogno di programmatori e sai programmare o supporti in qualche modo l’economia digitale, resti».
E gli italiani?
«Ci sono, e quando sono bravi sanno farsi anche valere. Ma c’è un fenomeno che ho osservato negli anni che rende la vita difficile a molti di quelli che vengono qui. Molti founder Italiani sono lenti ed orgogliosi. Lavorano sulla loro app per oltre un anno prima di andare sul mercato. Hanno terrore di fallire. Insomma hanno una formazione più da accademia che da imprenditori».
La tua fotografia è: italiani bravi sul curriculum, meno sul lato impresa.
«Ciò non toglie che conosco italiani che magari sanno programmare e lavorano come freelance e guadagnano anche 500 pound al giorno. Ne ho conosciuti alcuni che avevano un inglese scolastico, ma lavorano lo stesso.Pitchare agli investitori per convincerli a mettere soldi su una startup è un’altra cosa. Ci vuole un po per disimparare l’approccio accademico insegnato dalle università Italiane, e con la Brexit non è più possibile restare per sempre in Inghilterra senza un lavoro».
Chi soffrirà di più la decisione del Regno Unito di starsene fuori dall’UE?
«Quelli che vengono a Londra senza delle conoscenze competitive. Non parlo solo dei camerieri, ma anche dei laureati tardi in materie come Legge, Filosofia, Lettere. Mentre cuochi e programmatori troveranno sempre un posto ed un permesso di soggiorno».
Insomma quelli del «mollo tutto e vado a fare il cameriere a Londra»…
«Il punto è che paradossalmente, se arrivi senza laurea a 18 anni qui lavori. Il laureato in filosofia magari fa ristorazione per 3 anni poi o si adatta a quella vita. Oppure, molto più spesso torna. Ora questi tre anni di tempo non ci saranno più perché molti avevano contratti a nero. Ora per stare in UK devi lavorare. E sarà più facile farlo in questo settore per un giovane filippino, che magari fa un periodo così e poi si apre la sua impresa. Per farlo, qui, bastano 14 pound. La colpa è del nostro sistema scolastico. La cultura d’impresa stenta a decollare. E fare soldi, creare valore, vendere, non è considerato ancora un valore. La colpa è anche del nostro sistema scolastico».
Sarà più difficile fare startup a Londra?
«L’Inghilterra come gli Stati Uniti, è un paese basato sull’impresa. E’ un sistema aperto e non cambierà mai. E’ la loro cultura protestante a garantire questo. La cultura d’impresa è un valore per tutti. Però qui il metodo delle startup è quello lean. Nascono, vendono, scalano. Fare soldi è l’essenza qui di essere imprenditori. E chi ha questa mentalità non avrà difficoltà a fare impresa qui».
E per i founder italiani che vogliono fondare o spostare la propria startup in UK?
«Per chi non si adeguerà a questa mentalità sarà un problema. Anche se caratterizza i meno giovani, diciamo dai 25 in su. Millennials e i giovanissimi sono nati digitali e vivono in un mondo più globale. Sono molto più adatti della mia generazione a superare le difficoltà della Brexit. Mi spiace solo che sia capitato a loro».