Caffè, spezie, snack: arrivano i prodotti alimentari firmati dal colosso di Seattle. E promettono di rivoluzionare le logiche della grande distribuzione (come successo con l’editoria e l’elettronica di consumo)
Dopo i meal kit, dati in partenza per la prossima estate, Amazon sembra prepararsi a lanciare i propri marchi commerciali per il cibo. Secondo un’anticipazione del Wall Street Journal il “negozio del mondo” proporrà a breve ai suoi abbonati Prime nuove gamme di prodotti raccolti sotto etichette proprietarie. Un po’ come Coop, Conad e Pam, tanto per citare alcune fra le più grandi catene della grande distribuzione italiana, ma anche come i giganti statunitensi, pure Amazon starebbe dunque tuffarsi oltre i marchi con i quali propone materiale elettronico, prodotti per l’ufficio e vestiti.
I nuovi marchi commerciali
I nuovi brand dovrebbero chiamarsi Happy Belly e Mama Bear. La prima, in particolare, dovrebbe essere la linea riservata al cibo: dal caffè alle spezie passando per gli snack, molte le specialità che dovrebbero finire sotto quel cappello. Da ordinare con un clic. Nel secondo caso, invece, si tratta di un nuovo tentativo sui pannolini per bambini e detergenti. Ma anche in questo caso dovrebbe esserci una parte alimentare dedicata ai prodotti per i più piccoli.
Il “private labeling”
Il fenomeno del “private labeling” non è ovviamente nulla di nuovo. Ciò che è inedito è (o sarebbe) il suo sbarco massiccio sul principale player online, quello che controlla metà dell’e-commerce statunitense, e in particolare nell’ambito food. Ecco dunque che questo genere di mossa, in grado di estendere progressivamente la disponibilità dei prodotti nei vari mercati del mondo in cui Amazon è presente, diventa di un’importanza centrale: quello che è accaduto con i libri, i prodotti d’elettronica e gli infiniti altri beni a disposizione sulla piattaforma di Jeff Bezos potrebbe presto avvenire anche per la spesa quotidiana o settimanale. Grazie al circolo virtuoso (per il colosso di Seattle) fra i vari meccanismi in campo (da Amazon Fresh ad Amazon Prime Now) e appunto la disponibilità di prodotti brandizzati offerti, c’è da scommetterci, a prezzi ultracompetitivi. Perché fatti produrre ai gruppi industriali sfoderando le medesime armi già viste in altri comparti, per esempio in quello editoriale.
Fra l’altro, come fa notare Recode, i marchi commerciali delle grandi catene portano tipicamente in dote alti margini di guadagno dal momento che non hanno bisogno di grandi investimenti di marketing: si vendono cioè da soli, trascinati dalla forza della catena in cui vengono distribuiti. E la potenza di Amazon, sotto questo punto di vista, è già di per se stessa garanzia di successo. Anche se in passato qualche problema c’è stato, per esempio con i pannolini Element.
Il senso della mossa
Per Amazon la mossa avrebbe tuttavia senso sotto ogni punto di vista. Per esempio per spingere il valore di Prime e la fidelizzazione dei suoi utenti, anche nell’ottica di un ulteriore aumento della tariffa per ricevere gli acquisti senza pagare i costi di spedizione e spesso in un giorno o poco più. Potrebbe d’altra parte costituire un rischio notevole considerando che il passo nel mercato del cibo – con prodotti dei quali ci si assume direttamente la responsabilità, di fatto trasformandosi in produttore – è sempre delicato e ben più scivoloso di uno smartphone finito male (vedi alla voce Fire Phone): una pessima esperienza o qualche problema nel settore alimentare inciderebbero notevolmente sull’immagine e la reputazione del marchio. A quel punto direttamente coinvolto nella filiera, anche sotto il punto di vista “etico”.