Nuova tappa del Viaggio in Italia, stavolta nell’agro romano, in quell’area nota come residenza del Presidente della Repubblica. Qui nasce il National Biodiversity Future Center: oltre 2000 scienziati e 49 istituzioni studiano gli ecosistemi. L’abbiamo visitata per voi
A Castelporziano, in provincia di Roma, è nato il primo centro di ricerca italiano dedicato alla biodiversità. Nel “National Biodiversity Future Center” più di 2000 scienziati e 49 istituzioni sono impegnati a studiare e preservare gli ecosistemi e la biodiversità del nostro Paese. Coordinato dal Consiglio nazionale delle ricerche e finanziato con 320 milioni dal PNRR, il progetto, di durata triennale, ha il suo cuore pulsante a Castelporziano, nota soprattutto per essere una residenza presidenziale dove, un anno fa, prese forma la “Carta per l’educazione alla Biodiversità”, un hub centrale a piazza Marina, nel centro storico di Palermo, e diversi altri centri di ricerca dislocati su tutta la Penisola. Una grande rete che mette a sistema le ricerche italiane sulla biodiversità e le istituzioni impegnate sul territorio nazionale.
A presiedere il centro è Luigi Fiorentino, mentre alla direzione generale c’è l’astrofisico Riccardo Coratella, che ci ha accompagnato in questa nuova tappa del nostro consueto appuntamento del giovedì con Viaggio in Italia.
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Cosa accade nel Centro di ricerca
Nel National Biodiversity Future Center gli scienziati sono impegnati nello studio della varietà biologica in tutte le sue forme: dai microbi alle piante e agli animali, fino alla specie umana con le sue diversità culturali. Si pensi che nel Mediterraneo – e in particolare in Italia – il patrimonio è molto prezioso perché qui si concentra una diversità biologica tra le più significative di tutta l’Europa, con 60.000 specie animali, 10.000 piante vascolari e oltre 130 ecosistemi (secondo i dati forniti da Ispra). Coordinato dal CNR, il Centro contribuisce a monitorare, preservare e ripristinare gli ecosistemi terrestri, marini e urbani della Penisola e del Mediterraneo, aiutando a valorizzare la biodiversità e a renderla un elemento centrale su cui fondare lo sviluppo sostenibile.
«Grazie a un consorzio che vanta 49 partner di progetto, di cui 30 hanno acquistato una quota della società, il CNR, con 35 Università ed enti privati e pubblici, è l’attore principale che guida il progetto per un valore di vale 360 milioni euro, di cui 320 sono stati finanziati con il PNRR e 40 milioni dai partner – spiega il direttore – Il nostro progetto si focalizza molto sull’innovazione e sulla parte finanziaria: 60 milioni di euro verranno destinati proprio allo sviluppo e all’incremento della tecnologia di PMI, enti parco e aree marine di Italia. Palermo diventerà la città della scienza sulla biodiversità e nuove infrastrutture fisiche e virtuali sorgeranno anche a Venezia e a Roma. 150 milioni saranno destinati alla raccolta e alla creazione di banche dati e infrastrutture che metteremo a disposizione sia della comunità scientifica che della cittadinanza. Ad oggi, a collaborare con noi sono oltre 2.000 ricercatori, di cui 600 reclutati ad hoc, e si sta preparando il terreno per la nascita di spin-off e startup». Sebbene, infatti, il progetto sia partito da poco più di 4 mesi ci sono tutte le premesse per la creazione non solo di nuovi brevetti ma anche di nuovi team di ricerca che lavoreranno per la salvaguardia della biodiversità del Pianeta in un’ottica in cui l’open innovation è la skill favorita per eccellenza.
Un modello Hub & Spoke
«Il National Biodiversity Future Center è stato concepito seguendo il modello Hub & Spoke: un sistema di gestione e sviluppo delle reti nel quale le connessioni si realizzano dallo spoke (raggio) verso l’hub (perno centrale) e viceversa – spiega il presidente del Centro, Luigi Fiorentino – Dall’hub centrale, con sede presso l’Università degli Studi di Palermo, si dipartono così 8 raggi (spoke) dedicati alle problematiche legate al mare, alla terra e acqua dolce, alle aree urbane e alle ricadute sulla società, ciascuno dei quali comprende diversi partner affiliati (università, enti pubblici di ricerca e società private). Ogni area di interesse prevede due nodi incaricati del monitoraggio dell’ambiente e dello studio di soluzioni, affidate al Cnr e alle più prestigiose Università italiane».
Attraverso questa rete nazionale estesa di Università, centri di ricerca, associazioni e altri soggetti privati e sociali, il consorzio avrà la possibilità di intraprendere azioni concrete, efficaci e immediate per arrestare la perdita di biodiversità, contribuendo a perseguire l’obiettivo di proteggere il 30% del territorio italiano entro il 2030, come chiede l’Unione Europea, e promuovendo, nella scienza e nella politica, i processi di conservazione, ripristino e valorizzazione nella biodiversità. Saranno create reti di collegamento tra la comunità scientifica, le amministrazioni nazionali e locali, il mondo imprenditoriale e i territori e saranno sviluppate nuove tecnologie per migliorare la ricerca.
In particolare, all’Università di Palermo e di Genova si studia la biodiversità marina, mentre in quella di Siena e di Modena e Reggio Emilia, la biodiversità terrestre e d’acqua dolce. Il quarto spoke, a Sassari, è dedicato alle funzioni dell’ecosistema terrestre, ai servizi e alle soluzioni. Allo studio della biodiversità urbana è dedicato lo spoke numero 5 presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Politecnico di Milano, mentre il sesto spoke sulla biodiversità in relazione al benessere urbano è allo studio dell’Università di Pavia. Due spoke sono dedicati all’impatto della biodiversità sulla società, all’Università di Padova e alla Sapienza di Roma. Alla Scuola Superiore Sant’Anna si studiano, invece, l’innovazione aperta sulla biodiversità e lo sviluppo di tecnologie abilitanti.
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Open innovation: perché è importante
L’intero sistema si basa su una politica di condivisione dei dati che è imprescindibile per condurre le ricerche e monitorare i risultati che i ricercatori vanno via via indagando. Tutti i dati scientifici raccolti dal NBFC, e organizzati attorno a 4 piattaforme tematiche, saranno, infatti, resi disponibili alla comunità scientifica in open access. I vari hub dislocati in tutta la Penisola collaborano in un’ottica di open innovation. «Tutti lavoriamo per garantire un supporto tecnico-scientifico non solo ai nostri politici ma anche ai tavoli europei – spiega Riccardo – In questo senso, essere coordinati dal CNR ci aiuta senz’altro. Ogni responsabile scientifico dell’hub porta avanti un suo progetto con la volontà, da parte di tutti, di creare un’infrastruttura dati da mettere a disposizione della comunità internazionale».
La partita si gioca, dunque, proprio sulla condivisione dei dati. «Nello specifico, attualmente ci stiamo occupando di fare campionamenti, dematerializzare e ricatalogare progetti nel digitale, verso l’open science e l’open data che spesso soffre di un gap di comunicazione tra i centri di ricerca».
Obiettivi per il futuro
Anche se al momento un vero e proprio fatturato non si vede ancora, senza dubbio si sta creando una produzione di proprietà intellettuale: un asset intangibile per la società ma di inestimabile valore per la comunità, tutta, non solo quella scientifica. «Abbiamo lavorato sulla creazione di un documento di proprietà intellettuale – spiega Riccardo – Nei nostri hub ognuno porta il suo know how e genera profitto, perciò garantirgli la proprietà intellettuale diventa un’esigenza, anche al fine di creare la strada per ottenere nuovi finanziamenti una volta che saranno esauriti i finanziamenti messi in campo dal PNRR. Quando questo accadrà, infatti, vorremmo avere le base per far camminare il centro da solo, anche grazie a una serie di accordi che coinvolgono l’OCSE e altri centri di ricerca internazionali, come quello del Brasile e di altri Stati che stanno investendo sulla biodiversità per cofinanziare altre attività». E in seguito sarà istituito anche il Biodiversity Science Gateway: una grande infrastruttura virtuale che si appoggerà ad alcune sedi fisiche in Italia e alla nave oceanografica “Gaia Blu” del CNR, che avrà il compito di trasformare la ricerca scientifica in conoscenza diffusa e in realtà aziendali innovative: una struttura che sarà al tempo stesso uno strumento per l’educazione e l’innovazione e un luogo nel quale condividere risultati di ricerca con la società e il mercato.