In un documentario Alessandro Redaelli racconta di vite dedicate a Twitch, community virtuali e fisiche e contenuti seriali
In Italia 1,6 milioni di persone dichiarano di seguire un evento esport più di una volta a settimana. Spinto anche dal lockdown, lo scenario gaming è esploso anche nel nostro paese, seguendo un trend di crescita che durava da anni. A livello globale il settore vale più di cinema e musica messi insieme, ma questo non basta ad abbattere pregiudizi e luoghi comuni sull’ecosistema. «Nel girare questo film, è vero, ho ritrovato poco progressismo: in Italia il mondo dei videogiochi rimane in parte omofobo, tossico, sessista. Lo trovo assurdo. Non esiste linguaggio più libero e inclusivo di quello del gaming». Alessandro Redaelli – 30 anni di Milano – è il regista di Game of the Year, documentario che ha vinto l’ultimo Biografilm Festival di Bologna. In questa intervista a StartupItalia, ci ha raccontato che cosa si nasconde dietro a un palinsesto fatto di contenuti seriali, community fedeli, competizione e tanta dedizione che non garantisce agli streamer di fare il botto.
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Game of the Year: la fatica, prima di tutto
Il film Game of the Year, che StartupItalia ha potuto vedere in anteprima, non è ancora disponibile, anche se il regista ci ha spiegato che entro fine anno la pellicola dovrebbe farsi un giro delle sale e poi sbarcare su una piattaforma di streaming. Girato per intero nel pre pandemia, questo documentario racconta l’ecosistema gaming utilizzando una logica da insider, come se lo spettatore fosse lì, in silenzio, partecipe della quotidianità di streamer, manager, content creator e pro gramer. «Sono cresciuto con i videogiochi, il cinema è arrivato dopo – ha spiegato Redaelli – ed è per questo che li ho scelti come protagonisti del mio secondo film».
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Nel corso del documentario gli appassionati di videogiochi ritroveranno buona parte di tutti gli ingredienti che compongono lo scenario gaming: da Twitch agli eventi fisici, passando per le lunghe maratone di streaming. Chi invece ne è a digiuno è chiamato a uno sforzo di comprensione. «Con Game of the Year vogliamo sensibilizzare il grande pubblico su un tema in particolare: chi cerca il successo nei videogiochi fa lo stesso percorso e la stessa fatica di uno scrittore, di un film maker, o di chi vuole eccellere in un lavoro».
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Twitch non è YouTube
Spesso i nuovi lavori – che siano gli influencer o gli streamer – vengono percepiti come facili. «C’è uno sforzo enorme dietro: basta pensare che le ore passate su Twitch possono arrivare anche a sette al giorno, tutti i giorni». Sulla piattaforma di proprietà di Amazon vive una delle community più attive e fidelizzabili. «Prima di girare Game of the Year conoscevo soltanto la fatica degli youtuber, che per farsi spazio e guadagnare devono macinare visualizzazioni e chiudere sponsorship. Su Twitch, invece, grazie all’abbonamento di cinque euro al mese è tutto diverso. Non hai più bisogno di produrre contenuti di un certo tipo, montati. Se hai una personalità puoi fare anche 10 o 15mila euro al mese. Basta sapere come mantenere l’attenzione alta».
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Cambiare le cose
Game of the Year è il racconto di più vite, dedicate in toto al videogioco come lavoro. Se su StartupItalia abbiamo ribadito più volte quanto fossero spesso sbagliati certi pregiudizi su questo settore – fatto di startup, posti di lavoro, creatività e arte – ci siamo voluti concentrare anche su quello che il gaming italiano e internazionale può fare per farsi capire meglio. «È un lavoro che va fatto su più fronti, senz’altro – ha concluso Redaelli – c’è bisogno di istruire le persone al videogioco. Penso, ad esempio, a lezioni nelle scuole per spiegare che il medium può essere usato per creare cose, fare carriera, imparare. In tutta franchezza credo che oggi il mercato debba trovare una dimensione più seria. Il cinema ha i suoi festival, mentre il gaming ha l’E3, dove hai lo sparatutto tripla A caciarone mescolato con titoli indie che parlano di depressione e temi seri. Bisogna aprire le porte anche agli intellettuali. Insomma, per farsi trattare sul serio bisogna prendersi più sul serio».