Psicodramma interno alla maggioranza dai risvolti grotteschi: M5S costretto a votare per il Fondo Salva Stati se vuole salvare l’esecutivo. Trovato un fragile accordo. Reggerà?
In latino si dice simul stabunt vel simul cadent, a indicare che o si sta assieme o si cadrà assieme. Ed è esattamente la situazione vissuta in queste ore dal governo di Giuseppe Conte, mai così fragile e diviso. C’è in più un aspetto che ha del paradossale e pure del grottesco dato dal fatto che l’esecutivo a maggioranza 5 Stelle vede la propria sopravvivenza legata a doppio filo alle sorti dell’approvazione del MES che, è noto, i grillini non hanno mai potuto nemmeno sentir nominare.
Klaus Regling, amministratore delegato del MES
A voler sottilizzare, non si voterà lo stesso MES rifiutato a più riprese in questi mesi, ovvero quello sanitario, ma ci si dovrà esprimere sulla riforma europea (attenzione, non se il nostro Paese vi farà ricorso) del MES originale, ovvero proprio quello che affamò la Grecia e contribuì a far insorgere i sovranisti un po’ ovunque al grido che nessuno vuole la Troika (Commissione europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) in casa propria. Pure qui, volendo puntualizzare dovremmo dire che altri Paesi europei (Irlanda, Portogallo e Cipro) in questi anni hanno preso i soldi del MES senza inscenare nuove tragedie greche. Ma non distraiamoci, perché appunto oggi si vota sulla riforma del MES originale. E la maggioranza dovrà sostenerlo. Anche peggio, insomma: fumo negli occhi per tutti i pentastellati, tanto che lo stesso Beppe Grillo, che finora aveva tenuto calmi i suoi con una linea sorprendentemente moderata e filogovernativa, qualche giorno fa ha rotto gli indugi e pubblicato un post sul proprio blog dal titolo evocativo: La MES è finita.
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O il MES o la vit
Il problema, però, è che assieme alla messa potrebbe finire pure il governo Conte, perché questa volta il PD è deciso a tenere la propria linea. Fonti interne, inferocite per la caparbietà dei compagni di governo pentastellati, sbuffando giurano e spergiurano che “la pazienza nel partito, finora sia concavo sia convesso pur di far restare in piedi l’esecutivo, è finita”. I dem sembrano insomma aver perso capacità e voglia di cambiare forma, stabilendo di irrigidirsi sulla posizione attuale, che è pro MES. E il presidente del Consiglio prima di recarsi – virtualmente – a Bruxelles per portare il nulla osta italiano alla modifica del meccanismo Salva Stati dovrà sudarlo sul campo, quest’oggi, in Parlamento. Occhi puntati, dunque, al Senato, dove, tra espulsioni e abbandoni, l’emorragia pentastellata ha in appena due anni eroso significativamente la maggioranza, ora peraltro nuovamente in crisi per questo psicodramma tutto interno. Dall’opposizione, Silvio Berlusconi, corteggiato nelle scorse settimane tanto dai dem quanto dai renziani a ‘sto giro, dopo il voto favorevole concesso all’esecutivo sullo scostamento di bilancio, nega il proprio soccorso.
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L’unica buona notizia, per Conte, è che nella serata di ieri si è trovato un fragile accordo (vedi paragrafo successivo) e il voto di oggi sul MES, a differenza di quello sullo scostamento che ha richiesto la maggioranza assoluta (ossia 161 su 321) per passare ha bisogno della sola maggioranza relativa. Basta insomma che la maggioranza ottenga un voto in più. Ma, anche in quel caso, la crisi sarebbe solo rinviata visto che si potrebbe chiedere all’esecutivo di verificare se esiste ancora il vincolo fiduciario che lo lega alle Camere. Quindi in queste ore pontieri da un lato e gli emissari delle opposizioni dall’altro, pallottoliere alla mano, stanno provando a sovvertire gli equilibri, chi portandoli a favore di Conte, chi a suo sfavore.
Senato della Repubblica
© Senato
Questi i numeri: il Movimento 5 Stelle, prima forza politica della legislatura, può contare su 92 senatori, il PD su 3D, quindi ci sono i 18 che rispondono a Matteo Renzi e gli 8 delle Autonomie. A questi in teoria vanno calcolati i 15 del Misto che di solito votano con la maggioranza. Per un totale di 168 cui si aggiungono i senatori a vita Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Liliana Segre e Giorgio Napolitano. I notisti parlamentari fanno però notare come Segre e Napolitano da tempo, anche per questioni legate alla pandemia, non si rechino più in Aula. La Segre è data in forse, più difficile l’intervento dell’ex Capo dello Stato. L’opposizione può invece contare sui 63 senatori leghisti, i 18 di FdI, 14 del Misto, 3 di Cambiamo e, sulla carta, 54 senatori di Forza Italia, che però sul “no” al MES si è spaccata, perché i moderati vorrebbero votare sì. M5S, ad alto rischio franchi tiratori, prova a serrare le file minacciando espulsioni in caso di “tradimenti”, ma il reggente Vito Crimi è conscio di avere in mano un’arma spuntata: altre espulsioni indebolirebbero ulteriormente una maggioranza già risicata accorciando ancora la vita dell’esecutivo e, soprattutto, qualora vincesse il “no”, si andrebbe direttamente a elezioni anticipate.
Reggerà l’intesa trovata ieri?
Nella serata di ieri, al termine di giornate sincopate, nella maggioranza sembra esserti trovato l’accordo su di un testo che, spiegano dai 5 Stelle “non è ideale ma, almeno, rivendica il ruolo del Parlamento in sede di ratifica e avverte che non sarà disposto al voto finale se non ci sarà l’avanzamento significativo del resto del pacchetto di riforme, Edis [assicurazione comune dei depositi bancari, ndR] prima di tutto”. Ma, appunto, il rischio rappresentato dai franchi tiratori è altissimo.
Tra poche ore scopriremo cosa accadrà, con la consapevolezza, però, che la partita cruciale per la tenuta del governo potrebbe presto cambiare semplicemente campo e trasferirsi su quello per l’approvazione della task force voluta da Conte per la gestione dei piani e dei soldi del Recovery Fund. Italia Viva, rimasta fuori dalla regia che vede, oltre al premier (da considerarsi dei 5 Stelle), il ministro allo Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (altro M5S) e il titolare dell’Economia, Roberto Gualtieri, più il raccordo con Bruxelles di Vittorio Amendola degli Affari europei (entrambi PD), nella giornata di ieri ha evocato espressamente la crisi di governo. Insomma, per una crisi che rientra un’altra subito divampa.