È una delle più importanti operazioni dell’anno per il listino Nasdaq. Finita sotto il fuoco di fila degli osservatori a causa di quanto si è appreso sul modello di business della società
È il modello a cui si ispirano tutti nel settore: location spettacolari nei posti più suggestivi del pianeta, design moderno e funzionale con un tocco di prestigio che non dispiace a chi è in cerca di uno spazio coworking dove lavorare con la propria azienda. Grande o piccola che sia. WeWork, o meglio la società che controlla il marchio ora nota come The We Company, sta per dare il via alla propria quotazione a Wall Street: per questo è finita sotto la lente di ingrandimento degli addetti ai lavori, che hanno iniziato a chiedersi quanto possa essere sostenibile il suo modello di business a medio e lungo termine. Per venire incontro ai potenziali investitori la società ha iniziato a introdurre una serie di cambiamenti nella sua governance: ma, si vocifera, anche ad abbassare la stima del suo valore che potrebbe ridurre in modo significativo gli introiti una volta avviata la quotazione.
© Phillip Pessar
Tra documenti e indiscrezioni
I fatti. Per avviare una quotazione in Borsa qualunque società deve presentare dei documenti preliminari che fanno il punto sulla sua situazione finanziaria e sul suo management: negli Stati Uniti questo documento si chiama S-1, e riporta nel dettaglio anche tutta la situazione patrimoniale con crediti, debiti, bilanci e tutto quanto costituisce un potenziale vantaggio o svantaggio per la strategia societaria. Anche The We Company, in vista della sua IPO (Initial Public Offering), ha fatto lo stesso: e qui sono nati i primi mugugni in seno agli addetti ai lavori, che hanno visto numeri e situazioni che non li hanno entusiasmati.
In totale The We Company ha raccolto circa 12,8 miliardi di dollari in finanziamenti, l’ultimo round appena il gennaio scorso, con una valutazione dell’intera azienda che ha superato i 46 miliardi di dollari: tra i principali investitori figura Softbank, e la giapponese riveste un ruolo cruciale in tutta questa vicenda visto che da sola ha investito 6 miliardi in WeWork.
L’assetto societario di The We Company
Altri numeri di The We Company: le perdite operative erano di 396 milioni di dollari nel 2016, 931 milioni nel 2017, 1,69 miliardi nel 2018. Nei primi sei mesi del 2019 le perdite operative hanno raggiunto 1,37 miliardi di dollari (contro i 677 milioni nello stesso periodo dello scorso anno). A fronte di ciò vanno comunque evidenziati i fatturati registrati: 436 milioni nel 2016, 886 milioni nel 2017, 1,82 miliardi nel 2018. Il business è in crescita anche quest’anno, visto che nel primo semestre il fatturato registrato è stato di 1,54 miliardi di dollari (contro i 763 milioni di un anno fa).
Nel complesso i numeri di WeWork sono interessanti: l’acquisizione di nuovi clienti segue un ritmo sostenuto di +100 per cento all’anno, con oltre 400.000 membership registrate alla fine del 2018. Per il 2022 il fatturato previsto si aggira sui 4 miliardi di dollari, a fronte di 765.000 membri previsti. Da considerare, però, ci sono anche i costi: 5 miliardi di dollari di affitti da pagare entro 5 anni, più ovviamente tutti gli esborsi legati alla ristrutturazione e creazione di nuovi spazi. Anche per questo un ruolo significativo nella strategia prevede l’impegno a cercare di assicurarsi clienti tra le grandi aziende: quelli cioè interessati a impegnarsi per affitti più lunghi e potenzialmente più remunerativi, e in questo WeWorks si differenzia dagli altri coworking emergenti (e dalla concorrenza consolidata per l’appeal dei suoi spazi rispetto ai classici uffici).
I dubbi degli osservatori
Ciò che preoccupa gli osservatori è sopratutto l’impostazione del modello di business di WeWork: per la creazione dei propri spazi The We Company si impegna in accordi pluridecennali molto gravosi, con miliardi di dollari da versare in affitti, mentre con i suoi clienti firma contratti a breve termine (mediamente 2 anni) che possono costituire un problema in caso di crollo del mercato immobiliare a fronte di una recessione economica. Se dovessimo andare incontro a una situazione nella quale le aziende tagliano le spese per una crisi macroeconomica, dicono gli osservatori, WeWork si troverebbe con pesanti affitti da corrispondere e introiti in calo: da qui le domande sulla sostenibilità del business.
Altro aspetto criticato è la governance: così come descritta inizialmente poneva in capo al CEO e fondatore di WeWork, Adam Neumann, un potere notevole in seno al consiglio d’amministrazione, con un diritto di voto tale da potergli consentire di flettere il bastone del comando in proprio favore in quasi qualsiasi condizione. Altre critiche puntano il dito su un consiglio d’amministrazione esclusivamente maschile (qui è stato adottato un correttivo, cooptando una donna) e su un meccanismo di gestione di eventuali crisi societarie con la possibilità per la moglie di Neumann – Rebekah Paltrow – di guidare un comitato parallelo al consiglio per la scelta di un successore: anche qui sono state nel frattempo adottate delle misure correttive, riducendo il potere della famiglia Neumann che tra l’altro risulta anche creditrice di The We Company, visto che il CEO è proprietario di alcuni immobili affittati dalla stessa azienda.
Adam Neumann
© TechCrunch
Ciò che pone i maggiori dubbi in capo agli analisti, tuttavia, è la rapidità con cui WeWork consuma la propria liquidità: le cifre dicono che lo fa a un ritmo molto sostenuto (il negative cash flow della prima metà del 2019 è pari a 2,36 miliardi di dollari), niente che non fosse previsto ma che comunque basta a far sollevare più di un sopracciglio. Poi ci sono le partnership siglate in Asia, che potrebbero non garantire una remunerazione adeguata per i costi sostenuti. Infine c’è anche un prestito bancario in scadenza piuttosto consistente, dicono gli osservatori, che dovrebbe essere rifinanziato anche grazie a quanto raccolto con la quotazione: il problema è, quanto vale effettivamente WeWork?
Visti i numeri in gioco e lo scetticismo degli addetti ai lavori, la valutazione da 46 miliardi di dollari registrata solo lo scorso gennaio appare oggi non sostenibile. Le voci si rincorrono in questi giorni, e parlano di una The We Company intenzionata ad abbassare la valutazione per spingersi sui 25 miliardi o, addirittura, sui 10-12 miliardi: parliamo del valore totale della società, tra beni tangibili e immateriali, non su quanto si potrebbe raccogliere sul mercato. Va da sé che valutare l’intera società meno di quanto capitale è stato raccolto fin qui dagli investitori privati costituirebbe un problema d’immagine non da poco: da qui la possibilità di cancellare la IPO, in attesa di un momento più propizio per quotarsi.
L’idea di affrontare la quotazione a ogni costo non piace a Softbank, che si trova esposta in modo consistente con WeWork e che deve assicurarsi che un importante investimento ottenga l’approvazione del mercato: così da rendere a sua volta credibile la propria strategia con i propri finanziatori. Poi ovviamente ci sono le banche, anch’esse impegnate finanziariamente con Neumann e The We Company. E poi c’è l’intero ecosistema di startup, scaleup e unicorni: WeWork è il campione di questo ecosistema, il suo successo è importante per tutti loro. Con queste premesse la situazione si è fatta inevitabilmente tesa: e ora si parla di un rinvio, temporaneo, dell’inizio della quotazione.
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The We Company non commenta la vicenda: alla richiesta di StartupItalia l’azienda ha risposto facendo sapere di stare rispettando il cosiddetto “quiet period”, un periodo che scatta dal deposito delle carte per avviare la IPO e che dura per altri 40 giorni dopo la quotazione e durante il quale non è consentito fare dichiarazioni pubbliche, per evitare qualsiasi condizionamento del mercato.
Cosa fa WeWork
Coworking “in ambienti stimolanti” per “un’esperienza di lavoro che fa la differenza”: così si presenta WeWork ai potenziali affittuari dei suoi spazi, pensati per accogliere una piccola startup neonata così come i dipendenti di una grande azienda. Di fatto una delle principali qualità delle soluzioni WeWork è la flessibilità: il ventaglio di soluzioni offerte è piuttosto ampio e consente di scegliere una o più scrivanie in un open space, oppure di riservarsi spazi privati che possono anche comprendere un intero piano di un edificio. In più WeWork è presente in oltre 500 location in tutto il mondo: una volta entrati nel network è facile immaginare di riprodurre la propria presenza in un’altra nazione o un’altro continente, certi di trovare lo stesso tipo di location e servizi.
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I vantaggi di rivolgersi a The We Company per i propri uffici è evidente per chi mastichi di bilanci societari. Un ufficio di proprietà costituisce “un peso”, un costo da sostenere tra tasse e manutenzione, e lo stesso vale per affitti a lungo termine di uno spazio. Scegliere un coworking, invece, ha un vantaggio: ci si può impegnare per un tempo molto più breve, tipicamente un paio d’anni, ed esistono vie di uscita molto meno gravose per liberarsi di un sito produttivo rispetto alla chiusura di una locazione tradizionale. In più ci si può dimenticare di complicazioni come l’arredamento, la manutenzione, le pulizie, la connettività: sono comprese nel prezzo, e ci sono anche dipendenti WeWork che gestiscono ciascuna location pronti a risolvere eventuali problemi.
In pochi anni WeWork è diventata il punto di riferimento per l’intero comparto, anche grazie ad alcune location di sicuro effetto che si è assicurata in giro per il mondo e a un piano di espansione globale. A Londra, tanto per fare un esempio, c’è l’imbarazzo della scelta con 51 location distribuite in pieno centro (da SOHO a Westminster). A Parigi potete optare per una scrivania con vista sui Campi Elisi. Per non parlare del Nordamerica: a Manhattan da Midtown a Tribeca ci sono decine di spazi, spesso arredati con opere d’arte moderna e in cui campeggiano murales di artisti emergenti realizzati appositamente per quegli uffici. Senza contare, infine, il programma di espansione aggressivo in Asia e in particolare in Cina.